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Geddy Lee in Italian

 

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Gracias, Alessandro Arcuri!

L’intervista al consumato Geddy Lee

La realizzazione di “My Favorite Headache”, le registrazioni, la composizione, l’esercizio, la Medaglia dell’Ordine del Canada, il film di South Park ed altro.

Di Cristopher Buttner

Ciascuno dei tre membri dei Rush, il batterista Neil Peart, il bassista e cantante Geddy Lee ed il chitarrista Alex Lifeson, è considerato un maestro del proprio strumento. L’introduzione in numerose riviste e “hall of fame” in tutto il mondo, come miglior chitarrista, bassista, batterista, tastierista e band, attestano lo status di “musicisti dei musicisti” dei Rush.

I Rush sono famosi per i loro arrangiamenti complessi, epici ed estesi, con intricati cambi di tempo e tonalità, nonché per i testi ed i messaggi profondamente filosofici, mistici, politici e scientifici.

Lo status virtuale di eroi, per la band, è nato anche dall’assegnazione di un posto nel “Canada Walk of Fame” e per essere stato il primo gruppo rock a ricevere la prestigiosa medaglia dell’Ordine del Canada. Creata nel 1967 come riconoscimento per “significativi risultati in importanti campi della ricerca umana”, è stata consegnata al trio sia per i loro servigi alla comunità  – hanno raccolto più di un milione di dollari per cibo da destinare ai poveri nonchè per la United Way – che per i loro contributi all’arte.

Per chiudere il secolo in bellezza i Rush hanno vinto con un margine di due a uno la votazione on-line di JAM! ShowBiz come “più importanti musicisti canadesi di tutti i tempi”.

L’approccio diretto, sullo strumento, del bassista e cantante Geddy Lee, ha probabilmente influenzato più bassisti di chiunque altro, negli ultimi vent’anni.

Oltre ad essere riconosciuto come un prodigioso bassista e cantante, Geddy è cresciuto fino a diventare un polistrumentista di talento, che per caso adotta il basso come strumento principale sui dischi e sul palco. Mentre la musica dei Rush diventava sempre più intricata e grandiosa, Geddy è evoluto fino a diventare il tastierista stabile del gruppo, sui dischi e dal vivo. Circa quest’ultimo aspetto la sua abilità nell’operare su “tutte queste macchine che fanno musica moderna”, nel cantare e nel suonare il basso (dentro e fuori da svariati cambi di tempo che penso siano stati inventati dalla band) non è secondo a nessuno.

Non ho dubbi che, con l’avvento dell’Internet, il primissimo messaggio inviato al primissimo sito dei fans dei Rush sia stato: “quand’è che Geddy Lee farà uscire un album da solista?”

Il chitarrista Alex Lifeson ha pubblicato il suo lavoro solista, intitolato Victor, nel gennaio del ’96. Il batterista Neil Peart ha prodotto numerosi progetti solisti, inclusi gli apprezzati concerti, registrazioni e filmati “Burning for Buddy”, più altre registrazioni e filmati, come i lavori con Jeff Berlin del ’95 e i due video intitolati: “Neil Peart: a work in progress”. Questi ultimi documentano le registrazioni dell’album dei Rush “A test for echo”, come pure i “lavori in corso” di Neil stesso ed il suo “interminabile apprendistato” nell’arte della batteria.

Ed il mondo aspettava la fatica solista di Geddy...

Finalmente il 14 novembre 2000, Geddy ha rilasciato il suo primo album da solo “My favorite headache”. Per questo attesissimo lavoro è stato affiancato dal suo amico di lunga data, multistrumentista e collaboratore Ben Mink. Ben ha guadagnato enormi riconoscimenti per il suo lavoro, vincitore di un Grammy, con K.D. Lang, però un suo ruolo in qualche modo meno riconosciuto è stato quello di membro del famoso gruppo rock canadese FM, dove Ben suonava, fra le altre cose, il mandolino elettrico, e che Geddy dice “lo faceva suonare come fosse Jeff Beck.”

I batteristi Matt Cameron (Pearl Jam e Soundgarden) e Jeremy Taggart (Our Lady Peace), provvedono alle propulsive percussioni dietro gli undici pezzi di “My favorite headache”.

Geddy mi ha chiamato alle sette e mezzo di sera del 13 novembre 2000, e son sicuro che fosse contento di essere all’ultima intervista della giornata. Ha cominciato il tour promozionale lungo la costa orientale degli Stati Uniti verso il 9 novembre, e posso dire che dev’essere stato stanco, dopo molti giorni passati a rispondere a una pletora di ripetitive, se non vuote, domande. Senza realizzare che avrebbe potuto essere così stanco da cominciare a prenderla sul ridere, ho pensato di metterlo a suo agio per l’intervista con un po’ di autoironia.

“So che sei completamente fatto, dopo aver risposto ad un sacco di domande incessantemente ripetitive, nei giorni scorsi, perciò se le mie sono troppo filosofiche, o proprio troppo noiose, dimmelo pure.”

Geddy sogghigna: “annoiami, annoiami, annoiami quanto vuoi.”

Non ho voluto addentrarmi in questioni che solo bassisti anali avrebbero affrontato, tipo: “Allora, che tipo di corde usi? Preferisci le tastiere in acero o in palissandro? Che pick-up ha il tuo basso principale?”, ecc. Molti considerano Geddy uno dei musicisti più completi, alla pari di Sting e John Paul Jones, in più lui è un tipo molto cerebrale e riflessivo, con un sottilissimo senso dell’umorismo. Ho messo insieme una lista di “domande fuori dagli schemi” con un paio di miei amici, il tastierista Jordan Rudess ed il bassista John Myung, entrambi dei Dream Theater ed entrambi incredibili musicisti che citano i Rush come loro maggior influenza.

Geddy sceglie con cura le parole da usare ed è stato così gentile da rispondere a domande che dovrebbero stimolare tutti i musicisti, non solo i bassisti. Quasi subito una connessione debole lo costringe a cambiare telefono, perchè io possa registrare accuratamente la conversazione. Mi mette in attesa e passa all’altro telefono della sua camera d’albergo. Quando riprende dice: “dovrò starmene seduto a parlare sul water. Sono seduto ad un angolo piuttosto interessante... dovresti vedermi.”

Io rispondo: “mi risparmierai gli effetti sonori, vero?”

Ridiamo e ci rilassiamo entrambi, una volta trovato il nostro terreno comune: il bagno e l’umorismo da gabinetto.

 

            Christopher: Qali sono le tue emozioni attuali? Saresti più ansioso se questo fosse un’altro disco dei Rush?

            Geddy: è decisamente diverso, più che altro perchè se fosse un disco dei Rush starei già provando per l’imminente tour, progettando attrezzature da palco o materiale multimediale a retroproiezione. Sarei di un’animo totalmente diverso e non avrei così tanto tempo per accorgermi più di tanto dell’uscita del CD. Sono eccitato, le risposte che ho avuto sono state eccezionalmente positive e sto cominciando a pensare che ne valesse decisamente la pena (ride). Comunque non so cosa succederà all’uscita del CD, quanto venderà, ecc, ma da un punto di vista personale è stata una sfida che valeva la pena accettare.

            C.: Ci saranno stati fans che si sono aspettati, o avranno sperato in un album di basso solista, una dimostrazione roboante e auto-indulgente delle tue capacità sullo strumento. Quando hai capito che quello che stavi mettendo assieme stava evolvendosi in un vero e proprio disco, hai pensato a come desideri esser visto, dal punto di vista artistico?

            G.: Ho avuto offerte per realizzare quello che hai appena descritto: “il bassista che si spara scale su e giù per il manico”. In realtà non mi è mai interessato più di tanto. Mi attira di più la melodia, la struttura del pezzo e i testi evocativi. Ecco ciò che mi intriga, la composizione, la struttura e l’espressione. C’è stato un periodo in cui per me suonare veloce e fare numeri pirotecnici sulla tastiera era molto importante, e quando sto registrando una parte di basso lo è tuttora. Amo essere tedioso ed insistente e provarle tutte, sul basso; quando registro una parte, spesso provo cose che non avevo in mente di tentare, per vedere se ce la faccio. Mi sento a mio agio nel farlo solo se so che la struttura musicale attorno alla parte di basso è interessante e mi soddisfa dal punto di vista della composizione.

            C.: Come musicista sei il tipo imprenditoriale, che deve creare un poco alla volta, ogni giorno, anche solo una frase in un quaderno di appunti o solo poche battute di un pezzo, o sei il tipo che stacca per un po’ di tempo e crea quando viene l’ispirazione?

            G.: Ho un sacco di hobbies e posso essere molto negligente nel ricordarmi di scendere in taverna a lavorare. Quando entro in studio a lavorare comincio con qualcosa che mi prenderà non più di due minuti e subito dopo sono passate dieci ore e la mia famiglia mi sta sgridando perché vogliono che ceni con loro. Ho un approccio così estremo verso il lavoro, in cui posso essere completamente alieno verso le mie responsabilità, ma quando non lo sono divento totalmente indulgente nei loro confronti. Passo piuttosto rapidamente da un estremo all’altro.

            C:. Parlando di negligenza verso i doveri, ti metti mai a fare esercizio su uno strumento, sia esso il basso, la chitarra o il piano, perdendoti poi in giochetti, o il grosso del tuo esercizio deriva dal processo creativo?

            G.:Mi piace esercitarmi sul basso, ma non lo faccio così spesso come dovrei. Scendo da basso, attacco tutto, gioco un po’ e mi diverto. Regolarmente finisco per iniziare a scrivere qualcosa. Per ciò che concerne la tastiera… sono in realtà un onesto tastierista, sono molto bravo a fingere! Con l’aiuto della tecnologia moderna posso comporre parti di tastiera intricate, che poi però devo imparare per poterle suonare correttamente! (ride) Perciò non mi considero un gran tastierista. Per me non è un problema, è più che altro usare lo strumento per avere idee o per sostenere l’atmosfera di un pezzo. Mi piace usarle e scriverne le parti, ma non sono un tastierista nel vero senso della parola. A casa ho un pianoforte e l’altro giorno lo stavo suonando con la mia bambina piccola, e ho realizzato che maledetto pigrone che sono. Adoro il suono del piano, ed è così gratificante suonarlo… dovrei proprio passarci più tempo.

            C.: La parte del leone, per i testi dei Rush, è di Neil; hai per questo provato un senso di vulnerabilità nell’offrire finalmente i tuoi testi, le tue osservazioni, pensieri ed emozioni, alla tua musica?

            G.: Certo! È stato un processo di estrema esposizione, credo che sia questo che mi è piaciuto. Mi è piaciuto il fatto di essermi dovuto costringere a guardar dentro le mie emozioni e cercare veramente di capire quello che stavo passando. Molti fanno così: pensano a qualcosa durante il giorno, la mente vaga da qualche parte, ritornano alla memoria delle cose e poi si cerca di decifrarle. Ricordarsi di scriversi tutto ciò è un gran vantaggio. Poi ci si può ritornare sopra giorni dopo, analizzarlo e dare una forma, in termini di testo, a ciò che hai provato quando l’hai buttato giù. Per me ciò che sento quando scrivo si trasforma in una canzone. Soprattutto bisogna dimenticarsi il ruolo di  compositore e il risultato finale; per me è stato un interessante processo di apprendimento come persona! Solo imparare come farlo è stato piuttosto cruciale, per me.

Una volta che ho il testo, poi, ritagliarci attorno una canzone non è niente di nuovo, l’ho fatto per venticinque anni. La parte di ricerca interiore, la parte spontanea era e rimane un processo meraviglioso.

            C.: Come bassista sei molto rispettato, quasi come una “divinità” cantante e polistrumentista, da musicisti da tutto il mondo. Per molti sei il bassista di paragone, verso cui si giudicano gli altri. A questo punto della tua vita, da che artisti hai tratto ispirazione? Quali sono i bassisti che ti tolgono il fiato quando li vedi o li senti suonare?

            G.: Beh, certamente c’è tutta la “vecchia scuola”, in cui si trovano i bassisti che ho in mente. John Entwhistle, Chris Squire, John Paul Jones e Jack Bruce. Oggigiorno penso che Les Claypool sia un bassista brillante e ovviamente c’è ancora Jeff Berlin, che è un incredibile talento.

            C.: Qual è il compositore che ti fa rabbrividire? Che gruppo e che artista hai, in questi giorni, nel tuo lettore di CD?

            G.: Se ascolto “State of Emergency”, di Bjork, mi fa veramente uscire di testa. È un pezzo bellissimo, lei è incredibile. Non è per tutti i gusti ma per i miei lo è maledettamente, la adoro. È una vera artista, ha un gran talento e la sua voce è trascinante come ogni voce che ho sentito. Mi piacciono i pezzi che stanno facendo i Radiohead, mi piace il modo di cantare di Thom Yorke e la struttura dei loro pezzi; sono un gruppo molto interessante. Mi pace Tragically Hip, se è di pop o rock che stiamo parlando, però ci sono molte altre cose, anche dal passato, che ancora trovo molto stimolanti. Ogni volta che Solsbury Hill, di Peter Gabriel, passa alla radio mi ricordo di dov’ero quando la sentii per la prima volta; quel pezzo non ha età perché è scritto così bene –è qualcosa di così perfetto in sé.

            C.: Anche dopo diecimila ascolti sembra sempre nuovo.

            G.: Assolutamente! Quando sento pezzi così mi viene voglia di scendere in studio e lavorare.

            C.:I Rush sono stati considerati un gruppo di Progressive Rock per molto tempo, ti consideri un musicista “progressive” o quell’etichetta si è esaurita?

            G.: Beh, certamente mi identifico col progressive e non mi importa se i Rush sono etichettati come un gruppo progressive. Ho sempre pensato di essere più precisamente un musicista hard rock. Non so se il progressive esista ancora, se esiste è stato reinventato da band come i Radiohead e da artisti che stanno spingendosi oltre i limiti di quel tanto. Diciamo che è un termine un po’ datato ma non obiettabile.

            C.: Perciò i gruppi progressive che ancora esistono e che attribuiscono gran parte delle loro influenze ai Rush agli Yes e agli E.L.P:, quelli che cercano di mantenere vivo il genere, tu li ascolti? E se si, cosa ne pensi?

            G.: per essere sinceri non ne conosco molti e non ci sono mai stato molto attento, però mi piacerebbe sentire qualcosa. Probabilmente non vado abbastanza nei negozi di dischi per vedere che c’è di nuovo. Qualcuno mi ha parlato di questo nuovo genere chiamato Rock Matematico, che sta prendendo piede.

            C.: (sillabandolo) MATEMATICO? Rock matematico??

            G.: Si, è un nuovo genere nato dal prog, in cui prendono tutti quei strani tempi e costruiscono i pezzi come equazioni. (Ride) Mi ci identifico, coi Rush abbiamo fatto cose simili.

            C.: Da’ certamente un nuovo significato al termine “numerologia”.

            G.: (ridendo) Certamente c’è bisogno, di tanto in tanto, di un po’ di musica complicata. È un bene; forse stiamo tornando, musicalmente parlando, ad un periodo di questo tipo.

            C.: esci per un secondo dal tuo ruolo, per rispondere a questa domanda: ti consideri un musicista influente?

            G.: (sospirando) Mi sono sempre sentito un po’ arrogante a considerarmi in quel senso. Preferisco pensare a me stesso come ad un musicista che ancora sta imparando e che sta cercando ancora di fare qualcosa di nuovo. Però sarei ingenuo a non riconoscere la schiera di persone che mi hanno detto di essere stati influenzati da me e che vedono in me – ed in Alex e Neil – dei musicisti che hanno avuto un impatto positivo sulle loro carriere. Non credo si possano ignorare queste cose.

            C.: Parlami del tuo studio domestico, qual’è il percorso del segnale?

            G.: Il mio studio è fatto apposta per l’atmosfera. Ho una comoda ed accogliente stanza con una enorme porta a vetri che da’ sul mio giardino posteriore. Credo molto nell’illuminazione diurna nello studio. Ho una console Mackie 23/8 e utilizzo molto l’Emagic Logic Audio. Faccio andare l’intero sistema a 24 bit su un Macintosh 9600, il mio muletto. Inoltre ho una moltitudine di dischi fissi. Ora sto riunendo una serie di vecchi compressori: gli LA4 ed i 1176, quelle cose li. Ho usato gli LA4 in studio, quel tipo di compressori di alta qualità; ho anche usato quattro Empirical Lab Distressors, nel mixare l’album, sono molto utili. Dopo quest’esperienza sto provando a racimolare un po’ di roba come i Neve ed altri vecchi compressori. Più lavoro nel campo del digitale più mi rendo conto che quei macchinari sono indispensabili.

Poi c’è la mia attrezzatura bassistica, che consiste in un po’ di equipaggiamento della Demeter, SansAmp, Palmerson e Avalon. Il basso è stato registrato direttamente su tre tracce e non ho mai usato un “vero” amplificatore da basso.

            C.: Quanto, di ciò che è stato prodotto per “My favorite headache” è stato inciso a casa tua o a casa di Ben, e quanto di ciò che è stato registrato a casa è finito sul disco?

            G.: Abbastanza, in realtà. Quasi l’intero pezzo “Still” è stato registrato in entrambe le case; abbiamo aggiunto e rimpiazzato alcune parti di chitarra, tranne la batteria, ovviamente. Nessuna parte di batteria è stata registrata a casa; quelle sedute di registrazione sono state fatte allo Studio X a Seattle. Quasi tutte le parti vocali su “Still” ed un sacco dei cori, in generale, sono rimasti quelli che avevo inciso a casa mia; le parti di basso su “Moving to Bohemia” e “Angel’s Share” sono state registrate a casa mia, e quella di “Still” è stata registrata da Ben… giusto per dirne qualcuna.

            C.: Ben vive a Vancouver e tu a Toronto. Come vi scambiate i file? Vi spedivate i DAT o ve li mandavate via e-mail?

            G.: Io e Ben abbiamo gli stessi sistemi, praticamente quando vado da lui mi porto una copia dei miei file su DVD-RAM e, a volte l’intero hard-disk. Entro a casa sua e cominciamo.

            C.: Durante l’incisione del disco, quante volte sei stato a Vancouver e quante volte Ben è venuto a Toronto? Quanto c’è voluto prima che tutti e due andaste in uno studio professionale?

            G.: Un paio d’anni di avanti e indietro.

            C.: ANNI?!

            G.: Si, passavamo dai sette ai dieci giorni a casa mia, poi non facevamo nulla per due o tre mesi (si ferma e poi ride). Quindi io andavo a Vancouver da Ben, lavoravo una settimana, dieci giorni, e poi più nulla per due o tre mesi. E tutto ciò è andato avanti per troppo tempo! Poi, un giorno, ho finalmente detto “dai Ben! Dobbiamo darci una mossa, qua! Ce lo stiamo trascinando dietro!” (ora ridiamo entrambi) Finalmente, all’inizio del 2000, abbiamo detto “OK, andata, lo facciamo” e ci siamo messi seriamente; Ben è venuto a casa mia, ci siamo messi sotto per un paio di settimane, preparando tutto quanto. Quindi è arrivato Matt Cameron (il vecchio batterista dei Soundgarden) e abbiamo registrato le parti di batteria, rimpiazzando quelle che non erano a posto.

            C.: Dopo aver suonato con Neil, un batterista col quale tutti si confrontano, per cosi tanti anni, com’è stato suonare con Matt Cameron, che è un batterista più diretto e contenuto? Come è stato influenzato il tuo modo di suonare? Come bassista hai avuto più libertà, nel senso della creatività, dell’ispirazione e delle sperimentazioni più pazze sullo strumento?

            G.: Matt si è inserito molto bene. Gran parte delle strutture dei pezzi erano già definite quando ha aggiunto le sue parti. Mi ha così stupito, non posso dirti quanto; ha un bel suono ed un gusto impeccabile, e un tale tiro che è divertentissimo suonarci assieme. Per cui, dal punto di vista di un bassista, è stata una bella esperienza. Diversa da suonare con Neil, ma comunque molto valida.

            C.: Perciò lui è arrivato per incidere la batteria dopo che voialtri avevate già inciso le tracce principali.

            G.: Abbiamo scritto i pezzi mettendoci così tanto tempo, registrandoli nei nostri studi casalinghi, che quando Matt è risultato disponibile, avevamo già definito tutte le strutture. Molte delle sue parti di batteria hanno portato i pezzi su un altro livello! Lui suonava le sue parti e dopodiché mi piacevano così tanto che mi mettevo a rifare le mie tracce di basso, perché volevo suonare assieme a lui.

            C.: Il tuo produttore David Leonard (Prince, Santana, Barenaked Ladies, John Mellencamp) che è un tipo più alla “ascolta il tiro” ha tirato fuori te e Ben dal “micro-manipolare ogni singola nota”, perciò, come tipo attento al dettaglio, hai provato una specie di catarsi creativa -se vuoi- nel fare My favorite headache, rispetto a come avresti fatto un disco dei Rush?

            G.: David è stato grande, e questa è una bella domanda, perché il suo effetto è stato definitivo per noi. Ha un’enorme esperienza e ama l’idea di essere in una situazione di collaborazione. Per istinto è molto attento a cose che io trovo molto importanti; all’effetto che ha il tiro di un pezzo, che non credo ci avrei mai pensato, pur essendoci io così addentro. Poi è un tecnico molto bravo. L’altro contributo che ha portato è stato: piuttosto che affrontare i pezzi in una maniera tipo “catena di montaggio”, in cui si incidono le parti di basso per dieci giorni, le chitarre per tre settimane, le voci per chissà quanto… lui ha introdotto il concetto del “tiriamo su un pezzo, lavoriamo su quello e poi lo mixeremo”.

            C.: Cioè se ti stufi di un pezzo lo metti da parte e passi a qualcos’altro, giusto? Così da avere sempre freschezza, creatività e stimoli da altre sorgenti e stili.

            G.: Esatto! Ti faceva sempre sentire in contatto col pezzo! Non so perché io non abbia mai lavorato in questo modo! Direi che è una specie di routine in cui le band si ritrovano: Okay, è il turno del bassista, poi dai il cambio agli altri per un giorno o una settimana, quando tocca al chitarrista. Ma sai cosa?! È più interessante osservare come una canzone arriva ad essere completa, proprio come ho fatto col mio album solista… perché è stato registrato nella maniera in cui si scrivono le canzoni. Perciò perché non portare lo stesso approccio in studio? Direi che è la maniera con cui ha lavorato per anni con Prince. Prince lo portava anche oltre, fino a mixarsi i pezzi da sé. Li scriveva, li arrangiava, ci metteva qualche sovraincisione, li mixava e BOOM! Ecco il pezzo. Per me è un bel modo di lavorare

C.: C’è una grossa differenza fra esibirsi e fare una tournee. I tour sono un male necessario e le due cose sono esattamente agli estremi opposti della scala di ciò che uno ama o odia. Quanto improbabile è che tu raccolga un po’ di gente e faccia un po’ di concerti promozionali per “My favorite headache”, a parte l’obbligatorio unico concerto all’Orbit Room di Alex Lifeson? Ci sarà un tour regionale o qualche concerto nelle maggiori città, in futuro?

G.: C’è una possibilità. Ovviamente è remota, dipendentemente da quanto saranno con me gli “dei dell’organizzazione”, però è una cosa a cui sto pensando. Ci vorrà un grosso sforzo per tirar su tutto… ma sarà un’esperienza che varrà la pena di fare. Però non si può mai sapere! Ci sono un sacco di pressioni sul nostro tempo a disposizione, ora come ora.

C.: Se dovessi tirar su una consumata band di appoggio per il tour promozionale, chi vorresti nell’organico del gruppo, e quale sarebbe il nome: Geddy Lee & the press-on nails? (Geddy Lee e le unghie finte – N.d.T.)

G.: (ridendo) Si!!! Questo si che è un bel nome!

C.: Puoi pure mandarmi i diritti d’autore.

G.: Va beh, lasciami il tuo indirizzo, poi. Dunque, vorrei certamente Ben, e Matt o Jeremy… li vorrei entrambi ma sarebbe un onore comunque con l’uno o con l’altro. A Toronto ho un buon amico, Jason Sniderman, che è un ottimo tastierista e che vorrei con me. Poi vorrei un paio di chitarristi. Sarebbe bello portare in giro quelli dei Tragically Hip, Paul Langlois e Bobby Baker. Sono entrambi bravi chitarristi e verrebbe fuori un gran gruppo!

C.: Come musicista professionista cosa preferisci? Lo studio o il palco?

G.: Entrambi, ma più di ogni altra cosa preferisco scrivere.

C.: Ti manca il ruggito della folla, dopo quattro anni? C’è ancora - passami il gioco di parole – un “rush” di emozioni, quando sali sul palco, si illumina tutto e la folla impazzisce?

G.: Assolutamente! Penso che il più bel tour che o fatto in anni e  anni sia stato quello per “A test for echo”. Se mi manca quando non ci sono? Ummmmm… teoricamente direi di si, ma non tanto da stressarmi. Mi posso immaginare a fare un altro tour e divertirmi pure, ma se non succedesse non me ne lamenterei.

C.: Ti vedi sempre più coinvolto nel lato affaristico delle cose, magari nel management o nella produzione, per condividere la tua esperienza con altri talenti nascenti, o hai più bisogno del tuo lato creativo, scrivendo e registrando la tua musica?

G.: Preferirei spostarmi verso lo scrivere e produrre per altra gente. Amo scrivere, è il mio primo amore. Mi piacerebbe pensare che io e Ben abbiamo cominciato una collaborazione che ci porterà in diverse aree musicali, per continuare a scrivere, godermi e vivere altra musica, diversa da ciò che faccio coi Rush. Ovviamente amo ciò che faccio coi Rush e continueremo a farlo finché riterremo ne valga la pena. Tutto finisce e verrà un giorno in cui anche quello finirà; qualche progetto di composizione e produzione sarà un bel modo di passare i miei anni da rocker anziano.

C.: “Matusa-rock”?

G.: Non so come verrà chiamato ufficialmente… (ride)

C.: Tu e Jeff Berlin siete molto uniti. L’ultima volta che ci siamo sentiti, quattro anni fa, mi hai detto che è un bassista che rispetti veramente e che è qualcuno con cui ti piacerebbe studiare. Ne hai mai avuto l’occasione?

G.: No, mai. Sono andato a trovarlo un anno fa, solo per stare un po’ in Florida, ma abbiamo quasi finito per lavorare assieme. Ora sta finendo un disco e stiamo cercando di far funzionare le nostre tabelle di marcia, in modo che io possa fare qualcosa per il suo album. Però… qualcosa succede e qualcosa non succede mai. Siamo destinati, un giorno o l’altro, a far qualcosa insieme. Comunque non ho mai studiato con lui, e d è qualcosa che vorrei fare. (N.d.E.: Ci sarà uno speciale approfondimento con Jeff Berlin, su Global Bass Magazine, quando uscirà il suo nuovo CD, all’inizio de prossimo anno)

C.: Secondo la compagnia discografica, i Rush hanno venduto trentacinque milioni di dischi in tutto il mondo, il che è una cosa di tutto rispetto, e sono sicuro che tu ne sia orgoglioso. Inoltre e soprattutto i Rush sono stati la prima band a ricevere la prestigiosa medaglia dell’Ordine del Canada, quindi tu sei stato uno dei primi musicisti rock a ricevere tale premio. Essere onorati in tal modo da una nazione è un’esperienza che pochi avranno. Puoi descriverci cosa avete provato, personalmente e professionalmente, tu e gli altri membri dei Rush?

G.: Innanzitutto vivere in Canada è diverso dal vivere in America, nel senso che siamo una nazione molto legata alle tradizioni nate in Gran Bretagna. Essere chiamati dal governo o dal rappresentante della Regina, essere destinatari di un tale premio, che si traduce in un riconoscimento di buona cittadinanza nel più alto senso del termine è un onore incredibile. È il modo che il nostro paese ha di riconoscere il tuo contributo al miglioramento della società. Noi non siamo mai stati dei portabandiera o dei nazionalisti, però siamo tutti rimasti in Canada, perciò c’è un certo orgoglio nazionale. Aver ricevuto quel premio è stata una gran cosa per tutti e tre. Credo che nessuno di noi abbia fatto un solo commento cinico, durante l’intero viaggio in aereo, quando abbiamo ricevuto il riconoscimento e durante tutta la pompa e la cerimonia. È stato un momento molto particolare ed ha un significato speciale per noi tutti.

C.: C’è stato qualche politico che si è chiesto chi foste, magari grattandosi la testa quando voi tre siete comparsi, e dicendo “Huh? Rush chi?!?”

G.: (ridendo) Sono politici! Non ti faranno mai sapere se stanno pensando!

C.: Touchè! Ho sempre amato il sottile senso dell’umorismo dei Rush. Mi sono molto stupito quando ho visto che tu ed Alex Lifeson avete contribuito alla colonna sonora del film di South Park. Come siete stati contattati da Trey Parker e Matt Stone, per fare il pezzo?

G.: Matt Stone è uno che punta fisso, è un grande fan dei Rush e ci ha contattato tramite il nostro fotografo, Andrew McNaughton. Si sono incontrati ad una festa. Mi hanno chiamato mentre ero a casa di Ben a registrare delle parti e volevano che registrassi l’inno nazionale canadese per il film. Era tutta quella scena della “guerra al Canada”, quindi li abbiamo richiamati, abbiamo avuto una simpatica conversazione, ho accettato ed Alex ed io abbiamo passato due giorni nel suo studio casalingo e l’abbiamo messa insieme

C.: Quando ce ne saremo tutti andati, come vorresti essere ricordato, tu, cantante, compositore e musicista, nei libri di storia della musica, e come vorresti che fossero ricordati i Rush?

G.: Come un comico completamente serio, devo dire… è una domanda molto difficile. Direi che siamo state delle persone che hanno cercato di essere sempre migliori. La musica non è altro che cercare di essere più bravi a farla. Se poi hai qualche misteriosa alchimia che rende la musica che fai irresistibile, è un grosso vantaggio. La cosa è sfuggente e non sai quando ti capiterà, però la penso così, come me la sento. Ragazzi, che bel modo filosofico di terminare un’intervista!

 

Fine

 

Christopher Buttner è un pubblicista che lavora nell’industria musicale, in California settentrionale. La sua compagnia, la Aarvak Maketing Communications, è specializzata in pubbliche relazioni e in marketing e servizi di comunicazione per le industrie del divertimento e dello spettacolo: strumenti musicali, audio professionale, rgistrazione video, trasmissioni ed illuminazione ed equipaggiamenti da palco.

Questa è la seconda intervista di Christopher a Geddy Lee. Leggetevi l’intervista del 1996 a Geddy, proprio prima dell’uscita di “A test for echo” presso il sito

http://www.aarvak.com/interviews/geddy.html

Christopher è stato il primo a scoprire la notizia, all’inizio di quest’anno che i Rush entreranno presto in studio per registrare il loro diciassettesomo album, durante l’intervista ad Alex Lifeson per Mackietone News.

http://www.mackietone.com/articles/alexlifeson.asp

La notizia era così scottante che è stata raccolta da VH1.com- http://www.vh1.com/thewire/news/03_24_00/rush.jhtml e molte radio ne hanno approfittato. Recentemente è stato confermato da Geddy stesso che i Rush entreranno in studio, per lavorare su dei pezzi, a Gennaio e Febbraio 2001

Gli articoli di Christopher sono pubblicati da numerose testate di registrazione professionale, come pure da periodici per audiofili in molti paesi, fra cui in Russia, Polonia, Singapore, Australia, Cina, Canada, Messico, India e Sud America. Di solito lo potete trovare attaccato al suo Apple G4 mentre “sputa fuori verbosità”.

La sua pagina web è:

http://www.aarvak.com

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Alessandro Arcuri

 

                                                                                      

 

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Last modified: June 16, 2009