Global Bass Online December 2001
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by Alessandro Arcuri Essere il
bassista di un idolo musicale dei più giovani, come Lorenzo “Jovanotti”
Cherubini, (http://www.soleluna.com)
che è passato dall’hip hop alla world music, vuol necessariamente dire dover
sempre seguire la direzione musicale “imposta” dal leader? Stando a quello
che ha ottenuto Saturnino si direbbe di no, infatti la sua abilità di dare
sempre un contributo riconoscibile a tutto ciò che suona lo ha portato a
collaborazioni con artisti del calibro di Franco Battiato, (http://www.battiato.it)
con cantautori emergenti come Pippo Pollina (http://www.pippopollina.com)
nonché alla produzione di numerosi CD a proprio nome. Il tutto senza perdere di
vista la propria identità musicale. E non è poco… Alessandro: da Jovanotti in poi c’è
stata una specie di “emersione” della figura del bassista fra i ragazzini,
qua in Italia; pensi che sia una cosa che comunque doveva succedere, come fosse
un ciclo che prima vede i cantanti come figure di spicco, poi magari i
chitarristi e così via, o è stato un miscuglio del tuo carisma e della figura
di Jovanotti? Saturnino: secondo me è stata una
coincidenza fortunata, nel senso che mi sono trovato in una situazione musicale
in cui il basso faceva da padrone insieme alla batteria in un discorso molto
ritmico più che melodico, perciò è stata una spinta in avanti assolutamente
naturale, proprio di volume, perché lo strumento stesso era molto presente e
veniva fuori proprio in termini di volume, soprattutto nei dischi, oltre che nei
concerti (perché il problema è soprattutto nei dischi). Quando
uno strumento lo si sente poco non lo si identifica, no? E quindi, invece di
avere il chitarrista come spalla, è venuto fuori il basso. Questo ha fatto sì
che oltre ad una serie di grandissimi musicisti stranieri anche in Italia
venisse fuori questa figura del bassista. A.: quindi è sia merito del ruolo
accattivante di Jovanotti che della musica che veicola bene il basso. S.: certo, tra l’altro io avevo avuto
altre esperienze in precedenza e quando si registrava era una situazione molto
divertente, ma poi in miraggio non si capiva più niente. Con Lorenzo invece
mixare il basso e la batteria era e lo è ancora adesso, una libidine. A.: visto che si vedono spesso questi
strumentisti “spinti” da dei frontmen che magari danno loro molto spazio,
non è che i giovani bassisti di oggi rischiano di seguire degli idoli
stra-pompati da classifica o, al contrario, hai notato fra i tuoi allievi
un’attenzione al passato, ai bassisti storici? S.: pensa che
io di allievi non ne ho! Ho fatto dei seminari perché mi piace parlare con più
persone insieme; l’insegnamento individuale è una cosa che reputo molto
difficile, cioè è una cosa complessa, e poi è una responsabilità perché
comunque stai raccontando e trasmettendo delle cose ad una persona che pende
quasi dalle tue labbra. Quindi è una cosa che non mi piace fare, però ho una
notevole corrispondenza via mail con un sacco di persone che suonano e mi
chiedono dei consigli… e ci sono un sacco di bassisti che hanno aiutato questa
cosa. I gruppi che
senti oggi, per esempio i Red Hot Chili Peppers, nella figura di Flea, hanno
dato un enorme contributo, cioè far sentire bene il basso all’interno di
canzoni che comunque ascolti. A.: Perciò senza andare a prendere –
faccio per dire – la suite di venticinque minuti dei Rush (senza nulla
togliere a Geddy Lee), che è comunque forse un po’ da intenditori. S.: Beh, però
hai fatto un nome che si riferisce comunque ad una musica già molto ascoltabile;
se prendi per esempio un disco di Victor Wooten e Steve Bailey… cioè se un
sedicenne che inizia a suonare il basso e magari vuole esternare i suoi
sentimenti e fa sentire queste cose ad una ragazzina, questa gli dice “guarda
che te hai dei problemi”, mentre se suona un pezzo dei Red Hot Chili Peppers
nasce la magia. Faccio l’esempio dei Red Hot Chili Peppers ma per me sono
stati importantissimi per esempio il Level 42 del primo periodo. A.: grandiosi! Stavo giusto studiandomi
qualche loro pezzo su delle partiture che ho fortunosamente recuperato in rete,
dato che a volte certi bassisti tendono a finire un po’ nel dimenticatoio. Dei
bassisti attuali, invece, citavi Flea e poi? S.: fra le cose
più recenti c’è Me’Shell N’degè Ocello che mi piace un casino, proprio
tanto; però come ti ripeto, mi piace il modo di inserire il basso nelle
strutture che comunque sono delle canzoni. Poi c’è Tony Levin, che è un
bassista sia del passato che del presente. Ci sono delle vere e proprie
personalità musicali che secondo me non hanno età. Per esempio c’è un
emerito sconosciuto, di cui ho letto solo il nome sulla copertina del disco, che
è quello che ha suonato nella colonna sonora di “Hair”, che fa spavento! A.: e non sai chi è? S.: No, ho
letto il nome sul disco ma non me lo ricordo… sarà stato uno dell’orchestra
che suonava il musical ed è allucinante! A.: buono a sapersi… bisogna che me lo
segni… S.: se ascolti
attentamente “Aquarius” è veramente allucinante, e si sente comunque che
non sta suonando una parte scritta ma sta solo seguendo gli accordi, lo si sente
proprio dalle cose che fa… una cosa incredibile! A.: visto che hai parlato del ruolo del
basso, ho saputo che non gradiresti essere classificato o comunque finire a fare
il turnista. S.: beh, quella
non è una classificazione, nel senso che io considero la musica, come tutte le
forme d’arte, un enorme privilegio… è quasi una maledizione ed un
privilegio al tempo stesso; io volevo fare il bassista da quando avevo
quattordici anni e ci sono riuscito, nel senso che comunque suono il basso,
registro, faccio dischi, turnèe, quindi sono proprio al massimo, capisci?
Lavorare con gli altri è una cosa che mi piace poter scegliere, voglio
conoscere la loro musica, li voglio conoscere e stimare come artisti.
Fortunatamente il lavoro non manca; ricevo, grazie a Dio, almeno una volta al
mese delle proposte sia per registrare dischi che per fare tour, che come ben
sai in Italia sono corti, durano attorno ai due mesi e mezzo. Non sono tour
mondiali che ti fanno stare in giro due anni. Poi però ci sono cose a cui dico
“no, grazie”, semplicemente perché ho la possibilità di poterlo fare.
Comunque è un lavoro come un altro, se fai un tour di tre mesi ti porti a casa
diversi soldi e se vivi di questo l’importante è che tu lo faccia. Io, finché
ho la libertà di poter fare delle scelte che mi piacciono e che comunque mi
danno la possibilità di vivere bene… non vedo perché no. A.: certo, invece di accettare tutto
quello che arriva, solo perché non hai bisogno. S.: si, per
esempio uno che suona nell’orchestra di Paolo Limiti, durante la trasmissione,
prende dei bei soldi. Poi sta a te… se ti piace farlo… sempre meglio che
fare un altro lavoro più faticoso, no? A.: già… e proprio per il fatto che
preferisci conoscere e stimare, non solo personalmente ma anche artisticamente,
le persone con cui lavori, poi puoi anche risultare più riconoscibile sul tuo
strumento, invece di essere un semplice esecutore; difatti quando ho comprato il
disco di Pippo Pollina “Rossocuore” e ho visto che c’era il tuo nome fra i
bassisti (anche se non era indicato chi aveva suonato cosa) ho avuto
immediatamente il sospetto che sul pezzo “Finnegan’s wake” ci fossi tu,
cosa che poi lo stesso Pippo mi ha confermato. Questo vuol dire che il tuo suono
ed il tuo ruolo così riconoscibili sono una conseguenza dell’entrare così in
contatto con un artista? S.: mah, sai,
tutto sommato gli artisti sanno anche cosa chiederti e dove inserirti. Io credo
che il ruolo dell’artista, che è comunque di enorme responsabilità, perché
si espone in prima persona, quando fa un disco, è di fare un po’ il regista,
cioè capire per cosa può essere adatto e in che ruolo va inserito un musicista
e anche il produttore stesso. Devi sapere da prima dove inserirmi… tanto mi
conosci, mi hai visto dal vivo, mi hai sentito sui dischi, quindi sai che
contributo ti posso dare. Nel momento in
cui mi chiami io ti chiedo di farmi sentire le cose che fai, se non ti conosco;
nel caso di Pippo Pollina è stato determinante Franco Battiato, perché Pippo
mi aveva in formato via fax dicendomi che avrebbe fatto un pezzo in cui duettava
con Battiato e uno con Nada. Io avevo già lavorato con Franco, in studio, perciò
l’ho chiamato e ancora prima di sentire i pezzi gli ho chiesto cosa mi poteva
dire di questo Pippo Pollina; lui mi ha detto “guarda, è una persona che
secondo me scrive molto bene e per me ne vale la pena”. Poi quando mi sono
trovato a registrare mi sono trovato benissimo. A.: sempre ricollegandosi al fatto che ti
“immergi” nella musica che ti propongono di volta in volta (invece di
eseguire semplicemente una parte senza mettere nulla di tuo), com’è che
avviene questa cosa? S.: per esempio,
con Franco Battiato, quando siamo andati in studio aveva i provini con tutto
quanto già fatto e tra l’altro aveva dato i pezzi a tutti i musicisti con
largo anticipo, e quando ci siamo trovati in studio a Parigi non abbiamo fatto
altro che suonare i pezzi come erano stati fatti in pre-produzione, cercando però
di migliorarne il suono. Ovviamente ogni tanto c’era qualche intervento, ma in
quel caso è tale il carisma del compositore che per te è un piacere, un po’
come leggere un copione. A.: cioè puoi mettere qualcosa di tuo ma
è già quasi perfetto? S.: lo senti già
completo. Per esempio, per un pezzo molto delicato, “la cura”, quando ho
attaccato il sei corde senza tasti, che comunque avevo già pensato potesse
essere lo strumento adatto, tutti hanno detto “ah! Il suono è fantastico, OK,
registriamo con questo!”. E poi non fai altro che seguire la melodia, che
comunque è fortissima. Comunque è un
piacere lavorare con una persona che ha già le idee chiarissime, è veramente
bello, perché in quel momento stai veramente condividendo il suo pensiero. A.: a me è capitato di incidere con un
compositore padovano, Daniele Luppi, specializzato in Lounge/Cocktail Music, e a
volte trovavo dei semplici abbozzi di groove, altre volte mi dava degli
arrangiamenti molto complessi in cui delle note che inizialmente sulla carta
sembravano non dico messe a caso ma quasi, poi a sentire il risultato finale
erano tutt’altra cosa. S.: aah, quando
sei con l’orchestra è meraviglioso! A.: eh si, tanto che mi è capitato, risentendo i pezzi, di chiedergli “ma ero io, al basso, qui?” e lui “eh si…”. In altre occasioni, invece, come per
esempio con Jovanotti, mi sembra che la cosa sia più creata dal nulla, tipo
“vediamo come possiamo svilupparla”, per cui il tuo intervento è molto più
personale. S.: Eh! È
esattamente come l’hai detta tu. Cioè lui arriva con un’idea di testo ben
definita – e lui scrive sempre basandosi sui b.p.m. – quindi ci si mette lì
tutti quanti insieme e si prova. Di solito arriva coi testi, da tre anni a
questa parte anche con dei pezzi musicalmente finiti che scrive con la chitarra. A.: ed in quei casi come ti incastri? S.: ci
incastriamo a vicenda. Per esempio Pier [Foschi], che è il batterista, ed io,
suoniamo con Lorenzo da ormai quasi dieci anni e quando iniziamo a lavorare ad
un progetto con lui ci si rimbocca le maniche e si cerca di dare il meglio, cioè
trovare qualcosa che sia o che almeno possa sembrare originale. Delle volte non
facciamo altro che ricopiare un linguaggio già acquisito. Spesso si mette su un
disco, lo si ascolta in silenzio e si dice “OK, questa mi sembra la strada”
e quindi si inizia. Magari si cambiano le note, addirittura si possono usare le
stesse del giro appena sentito. A.: anche a me capita di sentire una
melodia che poi, cambiando qua e là un po’ di note diventa una cosa nuova;
comunque spesso gli spunti di partenza vengono da cose altrui. S.: certo,
cerchi magari di copiarne l’intenzione cambiando le note, no? Poi capita anche
la botta di culo, io quando stavo facendo “l’ombelico del mondo” ho fatto
quel riff lì e ormai mi chiedono solo quello. A.: si, mi ricordo che l’hai anche
detto in televisione da Red Ronnie, che hai avuto quell’uscita lì e
praticamente il pezzo era fatto. S.: capito? Te
lo dico proprio, è stata una botta di culo, perché ne esistono sei versioni. A.: ah, le famose “alternate take”,
che magari verranno fuori quando faranno l’antologia di Jovanotti nel 2080… S.: te lo dico
in tutta sincerità, molte volte suoni un casino di tempo, ascolti un sacco di
dischi e poi ti capita che ti metti lì a registrare e hai il vuoto; perché ti
riascolti e dici “ma cazzo, ma questa è una cosa normale… non mi piace…” A.: parlando di cose più tecniche ho
notato che sei passato dall’utilizzare quasi esclusivamente il sei corde,
all’inizio, ad usare ultimamente quasi sempre il cinque. È stata una scelta
ragionata o ti sei semplicemente accorto che toglievi sempre meno il sei corde
dal piedistallo? S.: mah, io
quando registro ho otto bassi sempre pronti, tutti completamente diversi, ne ho
da un Hofner originale degli anni ’60 [che culo! N.d.A.]
ad un Fender Precision, che poi sarebbe un Telecaster Bass del ’72, poi ne ho
una copia con la cassa fatta in alluminio con l’elettronica attiva, ho uno
Steinberger in carbonio, il Sadowsky a cinque corde un altro Fender quattro
corde. Per me è indifferente, però su di me lo strumento ha un forte
ascendente, cioè cambiando strumento cambio intenzione, è come se avesse una
sua anima, che ti condiziona nel modo di suonare. A.: però ultimamente ti ho visto molto
spesso col cinque… S.: si si,
ultimamente sto usando molto il cinque ed anche il quattro A.: per cui non è come, per esempio, mi
diceva Paolo Costa, che reputava il sei corde
un po’ troppo fuori range, un po’ troppo acuto, è solo una questione
di strumento che è più adatto a fare un particolare pezzo; per cui se ti si
vede spesso col cinque è perché stai proponendo un brano che è nato su quel
basso. S.: si, anche…
poi il sei, per il fatto che hai una corda in più sembra che la devi usare per
forza, e non ti nascondo che il Ken Smith a sei corde l’ho comprato quando era
uscito fuori John Patitucci ed io ero completamente andato fuori di testa.
Coincideva coi miei diciassette anni… A.: ho capito, eri influenzabilissimo… S.: ma sono
influenzabile tuttora, se c’è qualcuno che mi prende particolarmente lo seguo,
lo vado a vedere dal vivo, cerco di capire le cose che fa, cioè sono molto
appassionato. A.: so che tu hai iniziato come
violinista, e dato che anch’io ho fatto la stessa cosa ho notato che passare
da uno strumento prettamente melodico ad uno che è un fondamento armonico e
soprattutto ritmico, in alcuni casi non è stato difficile (forse perché per
quanto riguarda il senso del ritmo o ce l’hai o non ce l’hai), però il
fraseggio sul basso è tutt’un altro discorso. S.: rimane
sempre uno strumento accordato per quarte, per cui melodicamente puoi essere più
avanti, mentre a volte, su questioni di fondamenta armoniche, mi sono trovato a
discutere, perché magari avevano ragione gli altri. A.: nel senso che spostavi toniche e
rivoltavi accordi? S.: bravo,
magari mettevo una nota e mi veniva detto, spesso e volentieri dai tastieristi,
“guarda che questa nota al basso ci sta male, secondo me dovresti mettere
questa” A.: cosa che potrebbero dirti anche i
chitarristi… S.: si ma di
solito i tastieristi sono più rompicoglioni A.: guarda che lo scrivo, eh! S.: no, ma nel
senso che in studio sono quelli che ti dicono “qui al basso dovevi mettere il
Fa piuttosto che il Sol”, e tu dici “ ma guarda che secondo me sta bene
anche quella…” A.: però spesso quando un bassista
rivolta o sposta la tonica l’effetto è micidiale. Ti cito per esempio
McCartney… S.: eh, cazzo! A.: appunto, per cui è anche quello che
caratterizza la magia del basso, e secondo me il ruolo dello strumento non è
assolutamente da sottovalutare. S.: infatti,
poi molte volte magari le note che mettevo all’inizio venivano contestate ma
poi alla fine piacevano. A.: io a volte lo facevo di nascosto, per
esempio se in prova il chitarrista non se ne accorgeva e
poi riascoltava le registrazioni delle prove, quello che facevo gli
piaceva, ma se mi beccava durante l’esecuzione mi chiedeva “no, come, cosa…”.
Spesso quando la frittata è fatta si sente che è buona. S.: di solito
il bassista ha più degli altri questa “incoscienza”. A.: forse perché ci sentiamo limitati
dal punto di vista della gamma di frequenze a nostra disposizione, allora
proviamo di tutto. S.: proviamo di
tutto… prima o poi… A.: per dare un consiglio ad uno che
magari sa già suonare ma vorrebbe uscire dalla solita “tonica sugli ottavi”
o dalla solita pentatonica o scala blues, c’è qualcosa che potresti dire? S.: io dico
sempre questa cosa: bisogna sempre cercare di ascoltare prima di tutto la musica
che più ti da’ emozione, perché mi ricordo che quando avevo quattordici anni
e avevo iniziato a suonare il basso, e suonavo in una cover band che faceva
pezzi dei Rolling Stones e dei Van Halen, vedevo che questa musica mi dava un
sacco di energia; poi ho passato un periodo in cui alcune persone che suonavano
dicevano che per suonare bisogna ascoltare il jazz, che se non ascolti il jazz
non puoi mai arrivare a capire bene certe cose. Io mi sono messo ad ascoltare il
jazz e dopo un po’ mi rompevo i coglioni, capito? Cioè, se una cosa non la
senti tua, ma perché cazzo ti devi ostinare ad ascoltarla? Ho anche comprato un
contrabbasso, l’ho venduto dopo un anno. A parte che era faticoso da portare
dietro… Poi certe cose
le ho anche studiate e le ho suonate, ci sono anche delle cose bellissime… A.: come quel pezzo di Marsalis “Mo’
better blues”, di cui hai perfino fatto una cover. Quindi si ritorna al
discorso di prima… quel brano – come quel basso – mi suscita certe cose, e
quindi mi ci metto e me lo studio. S.: esatto, e
poi una volta che hai capito qual è la musica che ti da’ più emozione cerchi
di applicare quello che vuoi fare e trasmettere sullo strumento, a quelle cose
che già esistono. A.: si, io per esempio mi sono comprato
il mini-CD di Jennifer Paige, “Crush” e quello di Des’ree, “Life”,
solo per la linea di basso che mi volevo imparare. S.: poi quel
disco è stato masterizzato benissimo! A.: spesso mi compro dei pezzi pop da
classifica perché sono suonati bene, cioè non vedo perché dovrei fare lo
snob… S.: infatti,
devi essere sincero prima di tutto con te stesso, io conosco persone che vanno a
concerti di musica che non gli piace!
A.: pur di dire “io c’ero!” S.: si, o
persone che ti chiedono “ma lo stick non ti ha mai affascinato?” io rispondo
“io lo stick nun so’ bbono! L’ho comprato e l’ho venduto dopo una
settimana”. A.: per fortuna qui a Padova ci sono ben quattro persone che suonano lo stick (che per una città di neanche duecentocinquantamila abitanti sono tante) ed io ne conosco tre, per cui ogni volta che me lo facevo prestare e lo provavo mi veniva il nervoso e lo mollavo. Piuttosto mi siedo al mio Fender Rhodes, anche se so solo strimpellarlo, proprio perché lo sento più mio. Per finire, ricollegandosi alle jam che fai con Jovanotti, per tirare fuori da zero i pezzi, tu hai un sistema di home recording, che so, un computer, uno studiolo dove componi? S.: per niente,
ho un mini-disc con un microfono e basta. Credo che se devi lavorare con
qualcuno che ti aiuta al computer, deve essere una scheggia, se no non vale la
pena. Ho installato il software Logic nel portatile Apple, però non ci ho
attaccato niente! A.: rifiuto totale? S.: aspetto di
prendermi un piano e attaccarlo all’USB. Un programma che mi piace tantissimo
è Finale, che utilizzo per stampare la musica. A.: io stupisco tutti con la mia penna stilografica col pennino largo, che mi permette di scrivere in stile Real Book, tanto che tutti mi chiedono di dargli il programma che permette di scrivere così, ed io gli dico “l’ho fatto A MANO, tesoro!”. Insomma col mini-disc suoni, catturi il
momento, poi ti riascolti e se ti piace, bene e sennò pazienza. S.: si,
comunque preferisco essere in studio, che è un ambiente diverso; Lorenzo s’è
fatto lo studio in casa, dove c’era la cantina, col banco, Pro Tools col
massimo del sistema operativo, e soprattutto chiama un produttore in modo che
lo faccia lui. A.: tutto Macintosh? S.: tutto
Macintosh. A.: come chiedere di più? Visitate il
sito di Saturnino presso: http://www.saturnino.org
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