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Ares Tavolazzi in Italian

 

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by Alessandro Arcuri

Gli anni ‘70 sono sicuramente stati un periodo di sperimentazioni musicali anche piuttosto estreme; molti gruppi però non sono sopravvissuti a tale periodo e la loro notorietà è andata sfumando con gli anni. Un gruppo come gli Area, però, continua ad essere anche oggi un punto di riferimento per definire il concetto di “innovazione” nell’ambito della musica popolare, e non è certamente un caso se uno dei suoi componenti, Ares Tavolazzi, sia considerato una pietra miliare dai bassisti di ogni età e di ogni estrazione musicale. Dalle ballate dolci-amare di Francesco Guccini alle atmosfere fumose e sofisticate di Paolo Conte, alle improvvisazioni jazz più furiose, l’impronta di Ares è sempre stata chiaramente riconoscibile e, come lui stesso ammette, è il frutto del percorso di ricerca che proprio nel periodo degli Area è iniziato. 

   
©2002 Roberto Abbate

Alex Arcuri: ho visto dalla tua biografia che, dopo gli studi, sei passato da un inizio di carriera come turnista ad essere un elemento attivo degli Area e successivamente, specie dopo lo scioglimento del gruppo, ad essere di nuovo turnista e sideman in diversi progetti musicali. A parte la situazione attuale, visto che so che suonare jazz dal vivo è l’attività che preferisci, il passaggio da turnista ad elemento attivo di una band è avvenuto per caso o è stato frutto di una tua ricerca? 

Ares Tavolazzi: no, direi che quando sono andato con gli Area non è stata una ricerca, loro cercavano un bassista, ne stavano provando alcuni, fra i quali c’ero io, ecco. Per cui è stato abbastanza casuale da questo punto di vista, non è che stessi cercando qualcosa in quel momento... magari l’avrei fatto dopo; in quel momento è arrivata questa cosa ed io l’ho presa al volo. 

AA: e circa i due modi di lavorare, da turnista e da componente stabile di un gruppo, hai delle preferenze? 

AT: mah, sicuramente lavorare con un gruppo è molto meglio da tutti i punti di vista, perché fai un lavoro di ricerca, va avanti qualcosa di tuo, di personale, voglio dire... non è che fare il turnista sia un lavoro facile, richiede disciplina, richiede un altro modo di stare sullo strumento; però sono cose interessanti tutte e due.  Senz’altro preferisco comunque la ricerca. 

            AA: ed è per questo che, come ho notato hai detto anche in altre interviste, ti sei orientato verso una tua dimensione di ricerca, all’interno di gruppi jazz, per esempio il trio Gibellini - Tavolazzi - Beggio? 

            AT: si, diciamo che piano piano gli Area sono stati l’inizio di un cammino, di un tragitto che è arrivato fino a qui. 

            AA: infatti, sempre consultando tutto il materiale che ho trovato in rete su di te, ho visto che adesso sei completamente dedicato allo studio dell’improvvisazione; questo tipo di lavoro, non solo per te ma anche per gli altri musicisti, trovi sia una cosa facile da fare, qui in Italia, o trovi che si sia sempre un po’ sacrificati, sia nelle occasioni di proporsi che per come si viene accolti dal pubblico? 

            AT: no, direi che per come mi accoglie il pubblico non ho che da ringraziare, perché anche chi non ascolta normalmente jazz mi accoglie sempre in modo favorevole, e sono molto contento di questo; certo non è facile, finanziariamente, vivere di questo mestiere. Fai un sacco di strada, guadagni poco... si sopravvive, ecco; è una scelta ben precisa. 

            AA: e in quest’ambito come vedi la situazione dell’Italia rispetto all’estero? 

            AT: mah, adesso ci sono state delle aperture con la Francia ma non è che ci sia stato molto altro, però qualcosina si sta aprendo. Adesso per esempio vado a San Francisco con Enrico Rava, Roberto Gatto e Stefano Bollani, però son tutte cose abbastanza sporadiche, ecco. 

            AA: ed invece la situazione presente negli USA, o anche in Francia, per uno che voglia seguire questo percorso artistico, basato esclusivamente sull’improvvisazione? 

            AT: beh per Francia intendiamo Parigi, eh! Non è che nel resto della Francia... però direi che la situazione è un po’ meglio che non qua. Intanto è un po’ più riconosciuta; qui già se dici che fai il musicista non è un mestiere, se poi dici che fai jazz sembra che ti vai solo a divertire. In Francia sei un po’ più riconosciuto, sono riconosciuti i diritti d’autore sull’improvvisazione e sono stati fatti passi che qui credo ci vorrà ancora molto tempo. 

            AA: eh certo... ma visto che questo rimanda anche all’argomento dell’educazione musicale, e visto che spesso si vedono in giro annunci di seminari con musicisti famosi, non pensi ci sia come un’eccessiva tendenza da parte dei giovani musicisti a diventare dei “mostri nella propria camera da letto” e poi magari non sono capaci di suonare in gruppo?  Cioè non pensi ci sia come un’enfasi eccessiva sullo strumento e poi fuori non sei capace di suonare con gli altri? 

            AT: eh... è esattamente il contrario rispetto a quando ho cominciato a suonare io. Quando ho cominciato a suonare io non c’erano mezzi, però c’era modo di suonare, anche se suonavi musica da ballo era tutto un altro modo di stare sullo strumento, imparavi un sacco di cose. Adesso manca proprio questo. Manca la pratica dal vivo ed invece ci sono mezzi a bizzeffe, perché tra internet, seminari, di qua, di là... però, insomma, questa situazione lascia un po’ il tempo che trova. Cioè ti prepara tecnicamente (e anche lì però ci sarebbe da parlarne...) e però non ti prepara assolutamente ad suonare con gli altri, ad avere un’autonomia ritmica ed una conoscenza più pratica, ecco. 

            AA: tu insegni ancora? 

            AT: io in questo momento insegno in due scuole, a Rovereto [al C.D.M.] e qui a Bologna [al Container], più qualche lezione privata. 

            AA: e stressi molto su questa componente... 

            AT: ma si, io insisto molto sul fatto che bisogna imparare fare delle melodie semplici, sullo strumento, prima di fare cose che tecnicamente non portano a niente; secondo me è più difficile fare una melodia che abbia un senso, che non fare una scala velocissima che non si sa dove metterla. 

            AA: infatti ho notato che nei tuoi assolo, la caratteristica è che parti con una certa tranquillità e poi entra la tua componente melodica, tant’è vero che ti canti quello che stai suonando; cioè parti tranquillo e poi ti lasci andare. 

            AT: esatto, e anche li dipende molto, siccome sono situazioni psicologiche diverse, dipende da con chi stai suonando, da come stai tu, da come hai attraversato la giornata, per cui anche l’improvvisazione subisce delle modifiche, a seconda del tuo stato d’animo; certo è che comunque le componenti che uno ha, quelle le mantiene, eh! Per cui la mia componente è la melodia e quello è, insomma. Su questo io insisto molto. 

            AA: anche se, come spesso dicono i miei compagni di gruppo (con cui faccio, per esempio, anche pezzi di Conte), quando devi fare, che so, una beguine o un mambo, in cui devi fare proprio due note solamente, tu non ti schiodi da quelle e rimani incrollabile; per cui c’è anche la componente prettamente ritmica, in te. 

            AT: assolutamente, ma per questo ti dicevo che fare il session man mi è servito molto, è una disciplina importante; ogni musica ha le sue regole, ha il suo modo di essere condotta e questo va rispettato, specialmente quando lavori per terzi. C’è una disciplina ed un gusto anche in questo, c’è un gusto nella semplicità, come c’è un gusto nel suonare musica cubana, col basso spostato che è ripetitivo e che però ha una circolarità che va presa, che va acquisita, non è così semplice, sono spostamenti ritmici infinitesimali che però danno l’elasticità, la rotondità del ritmo. 

            AA: e ovviamente, visto che come dicevi prima, negli anni 70 non c’era un’educazione musicale affermate, sono robe acquisite “on the road” diciamo. 

            AT: si, assolutamente, ma sai la balera mi ha insegnato molte cose... anche come accompagnare Paolo Conte! E peccato che non ci siano più! Perché adesso la balera vuol dire liscio... 

            AA: e visto che hai citato il rovescio della medaglia degli anni settanta, (cioè che non c’erano scuole), hai detto però che c’era un coraggio, dal punto di vista musicale e sperimentale, molto più presente. 

            AT: assolutamente, anche perché c’era modo di suonare, il circuito politico dava modo di suonare veramente tanto, magari guadagnare poco però stare su un palco davanti a della gente e sperimentare dal vivo quello che hai sperimentato in cantina. 

            AA: e ora come la vedi, la situazione? 

            AT: mah... questa cosa non c’è più, è un po’ come la vita, come la politica, come i valori... tante cose non ci sono più, ecco. è tutto finalizzato a funzionare a livello finanziario, tutto deve rendere subito, per cui anche la fruizione da parte dei giovani è quella che è, insomma... i giovani non vogliono sentire cose difficili, vogliono sentire cose che martellano... non sto parlando di tutti, per carità, è un discorso un po’ di massa; però direi che in linea generale c’è questo, la musica è diventata un po’ un sottofondo o un’occasione per sballarsi il cervello e basta, con volumi pazzeschi. Oppure un’occasione per far si che al ristorante la gente possa parlare, perché se gli togli la musica non parlano più, che se ci pensi è una cosa molto strana, è un condizionamento incredibile. 

            AA: dato che ho visto che sei stato in America, a New York, anche per studiare; vedendo una situazione come quella, sia musicale che di ambiente e contesto dove si inserisce la musica, pensi che in Europa siamo tanto indietro, rispetto a loro? 

            AT: nooo, non c’è più questo divario, ormai sono decenni che gli americani vengono qui, che gli italiani e gli europei vanno là, ormai questo scambio è avvenuto; direi che in Italia, rispetto all’Europa ci sono musicisti bravissimi, veramente... e questo non lo dico io, lo dicono gli americani! 

            AA: ciononostante molti grossi nomi del pop italiano continuano a chiamare musicisti americani a suonare sui loro dischi. 

            AT: e vabbè, questa è una malattia, l’esterofilia è una malattia che abbiamo da quando abbiamo cominciato ad essere invasi... ormai è qualche centinaio di anni. 

            AA: passando al lato più tecnico, ho visto alcune tue foto in cui suoni un basso elettrico di marca imprecisata, dato che la foto non è abbastanza dettagliata, a sette corde. 

            AT: è un Warwick, si, è un basso che mi ha fatto la Warwick, o più che altro mi ha adattato, perché è uno streamer adattato a sette corde, con un ponte particolare, i pickup un po’ più larghi... 

            AA: e con che accordatura? 

            AT: è l’accordatura del sei corde con una corda aggiunta più acuta, che è un Fa, quindi sempre per quarte. 

            AA: quindi lo utilizzi per la componente melodica o più per la componente di accordi d’accompagnamento? 

            AT: mah, ha più funzioni, è uno strumento che è praticamente un pianoforte, per cui posso usarlo come basso, come strumento armonico... l’ho fatto fare per quello, insomma, mi interessava sviluppare alcune cose armonicamente. 

            AA: e come mai non hai considerato, faccio per dire, lo stick? 

            AT: perché la tecnica dello stick è una tecnica più pianistica che chitarristica, perché coinvolge le due mani in modo diverso, cioè richiede un’indipendenza, capisci? E per uno come me che ha suonato uno strumento in cui la mano destra risponde a quello che fa la sinistra e viceversa, è un po’ difficile, ci vuole un sacco di tempo. Ho avuto lo stick, ho cominciato a studiare cose di Bach, però mi ci sarebbe voluto talmente tanto tempo e tanta applicazione che praticamente dovevo chiudermi in casa, e non era il caso... 

            AA: e visto che hai citato i musicisti classici, i tuoi studi di conservatorio quanto hanno influito? 

            AT: su quello che faccio ora? Non so valutarlo esattamente perché è una cosa che è avvenuta nel tempo, però sicuramente alcune cose mi sono rimaste, un certo tipo di impostazione per le diteggiature sul contrabbasso... nient’altro, credo... la lettura, ecco. 

            AA: quindi non un’organizzazione mentale, dal punto di vista dell’armonia, eccetera...? 

            AT: no, perché purtroppo sono stato un po’ anomalo da questo punto di vista, perché facevo il conservatorio e già suonavo nelle balere, per cui ho sempre vissuto due mondi in modo parallelo; tra l’altro in quegli anni il conservatorio di Ferrara, che era poi il liceo musicale, non si ascoltava musica classica, non c’era un’educazione per niente, guarda... era terribile, non eravamo seguiti per niente, ci riprendevano solamente perché avevamo i capelli lunghi e queste cose qui, cose che adesso per fortuna sono cambiate.  Per cui non l’ho vissuta benissimo, direi che alla musica classica mi ci sono avvicinato più dopo, dopo i trent’anni, per curiosità mia, per necessità mia, insomma, per cui da questo punto di vista non mi è servito, anzi, credo di essermi salvato da una tragedia melodico ritmica. 

            AA: perché altrimenti lo studio della musica classica...? 

            AT: com’è condotto, per me, è allucinante, cioè non apre niente... 

            AA: è una cosa che mi hanno detto già in parecchi, eh! 

            AT: i conservatori sono chiusi, sono con i paraocchi, quando si decideranno a capire che la musica è musica... cioè se tu senti, c’è gente che studia dieci anni il pianoforte e se gli chiedi che accordo stanno facendo non te lo sanno dire, perché lo stanno solamente leggendo! Allora, voglio dire, questo è terribile; non è che uno deve fare solo improvvisazione, cioè la musica classica può essere al servizio del jazz, ma anche il contrario, attenzione. Cioè il jazz da’ un’elasticità ritmica, da’ una padronanza che potrebbe andare molto d’accordo e migliorare sicuramente il livello tecnico ed espressivo della musica classica; come sta succedendo un po’ in America... 

 
©2002 Roberto Abbate

            AA: come nel caso di Keith Jarrett... 

            AT: come Jarrett, ma per esempio c’è una cosa molto evidente, se tu senti i Kronos Quartet, che sono stati uno dei primi quartetti d’archi ad eseguire musiche di Monk o robe del genere, se tu senti come dividono le cose di Monk fanno un po’ ridere... sono quadrati, e proprio manca quell’elasticità che deve esserci, capisci? Invece ci sono quartetti americani di giovani che ormai non hanno più questo problema. Cioè lo hanno superato e le cose si stanno unendo. 

            AA: visto che la situazione dei conservatori è quella che sappiamo, ci sono però parecchie scuole di musica moderna, in giro. Tralasciando il discorso sulla tecnica che avevamo citato prima, che rischia di produrre solo fenomeni da circo, pensi ci sia una considerazione a tutto tondo della musica o anche lì sfornano cantautori e basta? 

            AT: no, no, ci sono delle scuole che si stanno specializzando, ci sono scuole più o meno serie, eh... diciamo che dietro questa facciata si sono nascoste, in questi anni suole poco serie, ecco... adesso sta cambiando un po’. Però nelle scuole private dipende molto dagli insegnanti, perché dove insegno io ho piena libertà, la scuola è solamente un luogo che mi permette di avere una stanza e degli strumenti per trasmettere qualcosa. 

            AA: e non sarebbe meglio se ci fosse un direttore artistico che decidesse chi far insegnare? O meglio, che decidesse che impronta dare a quella scuola e sulla base di quello decidere chi chiamare? 

            AT: si ma chi? Chi ha una preparazione tale per fare questo mestiere, in Italia? Perché è difficile dire questo, sai, è molto difficile. 

            AA: non è per fare pubblicità ma ho visto che dal vivo, col contrabbasso, utilizzi un amplificatore Acoustic Image, giusto? 

            AT: utilizzo l’Acoustic Image ed utilizzo un AER tedesco, che adesso è in fase di aggiustamento, e quello me l’hanno dato in sponsor, ammesso che me lo ridiano, perché non si sono fatti più sentire... mentre l’Acoustic Image è mio e mi piace molto. 

            AA: quindi non è una scelta dettata solo dalle dimensioni, perché ho visto che è molto piccolo... 

            AT: no, no, io non mi sono mai fatto questo problema perché davanti al suono non ci sono dimensioni che tengano. Vabè è chiaro che si cerca il compromesso, però per esempio il Gallien Krueger l’ho usato per un anno e poi non l’ho più usato perché non rispondeva alle mie esigenze.  Questo invece è fatto in modo da avere una potenza abbastanza buona e una buona diffusione, avendo il woofer che spara per terra... insomma mi piace. 

            AA: ah c’è il woofer che spara per terra, ecco perché sentivo il basso dappertutto!  Vabè... e, visto che lo chiedo ormai a tutti... consigli per un giovane che si avvicina allo strumento? 

            AT: mah... che dire... 

            AA: visto che rimorchiare le ragazze col basso è un po’ difficile... 

            AT: heh heh... non saprei, dipende molto dall’individuo, perché io insegno molto ai giovani e vedo che il mio modo di insegnare cambia a seconda di chi ho davanti. I giovani hanno, come sempre, come in tutte le generazioni, e forse adesso di più, hanno problemi di identità, per cui il consiglio che posso dare io è di studiare bene lo strumento, approfondirlo bene e non essere presuntuosi. Cioè non credere di sapere già le cose, perché poi alla fine non si sa niente, e questo mi succede ogni giorno, quando insegno. Se chiedo le cose più semplici, tipo scale maggiori, tonalità... mi dicono “si, si, so tutto” poi gli dico, vabè, fammi una scala maggiore su due ottave e non me ne fanno neanche mezza. Allora, voglio dire, prima le cose di base e poi... pazienza, ecco, ci vuole pazienza ed obiettività.

 

Fotografie di Roberto Abbate

Alessandro Arcuri

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Last modified: June 16, 2009