Global Bass Online June 2002
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by Alessandro Arcuri Gli anni ‘70 sono sicuramente stati un
periodo di sperimentazioni musicali anche piuttosto estreme; molti gruppi però
non sono sopravvissuti a tale periodo e la loro notorietà è andata sfumando
con gli anni. Un gruppo come gli Area, però, continua ad essere anche oggi un
punto di riferimento per definire il concetto di “innovazione” nell’ambito
della musica popolare, e non è certamente un caso se uno dei suoi componenti,
Ares Tavolazzi, sia considerato una pietra miliare dai bassisti di ogni età e
di ogni estrazione musicale. Dalle ballate dolci-amare di Francesco
Guccini alle atmosfere fumose e sofisticate di Paolo
Conte, alle improvvisazioni jazz più furiose, l’impronta di Ares è
sempre stata chiaramente riconoscibile e, come lui stesso ammette, è il frutto
del percorso di ricerca che proprio nel periodo degli Area è iniziato. Alex Arcuri: ho
visto dalla tua biografia che, dopo gli studi, sei passato da un inizio di
carriera come turnista ad essere un elemento attivo degli Area e successivamente,
specie dopo lo scioglimento del gruppo, ad essere di nuovo turnista e sideman in
diversi progetti musicali. A parte la situazione attuale, visto che so che
suonare jazz dal vivo è l’attività che preferisci, il passaggio da turnista
ad elemento attivo di una band è avvenuto per caso o è stato frutto di una tua
ricerca? Ares Tavolazzi:
no, direi che quando sono andato con gli Area non è stata una ricerca, loro
cercavano un bassista, ne stavano provando alcuni, fra i quali c’ero io, ecco.
Per cui è stato abbastanza casuale da questo punto di vista, non è che stessi
cercando qualcosa in quel momento... magari l’avrei fatto dopo; in quel
momento è arrivata questa cosa ed io l’ho presa al volo. AA: e circa i
due modi di lavorare, da turnista e da componente stabile di un gruppo, hai
delle preferenze? AT: mah,
sicuramente lavorare con un gruppo è molto meglio da tutti i punti di vista,
perché fai un lavoro di ricerca, va avanti qualcosa di tuo, di personale,
voglio dire... non è che fare il turnista sia un lavoro facile, richiede
disciplina, richiede un altro modo di stare sullo strumento; però sono cose
interessanti tutte e due. Senz’altro preferisco comunque la ricerca.
AA: ed è per questo che, come ho notato hai detto anche in altre
interviste, ti sei orientato verso una tua dimensione di ricerca, all’interno
di gruppi jazz, per esempio il trio Gibellini - Tavolazzi - Beggio?
AT: si, diciamo che piano piano gli Area sono
stati l’inizio di un cammino, di un tragitto che è arrivato fino a qui.
AA: infatti, sempre consultando tutto il materiale che ho trovato in rete
su di te, ho visto che adesso sei completamente dedicato allo studio
dell’improvvisazione; questo tipo di lavoro, non solo per te ma anche per gli
altri musicisti, trovi sia una cosa facile da fare, qui in Italia, o trovi che
si sia sempre un po’ sacrificati, sia nelle occasioni di proporsi che per come
si viene accolti dal pubblico?
AT: no, direi che per come mi accoglie il
pubblico non ho che da ringraziare, perché anche chi non ascolta normalmente
jazz mi accoglie sempre in modo favorevole, e sono molto contento di questo;
certo non è facile, finanziariamente, vivere di questo mestiere. Fai un sacco
di strada, guadagni poco... si sopravvive, ecco; è una scelta ben precisa.
AA: e in quest’ambito come vedi la situazione dell’Italia rispetto
all’estero?
AT: mah, adesso ci sono state delle aperture
con la Francia ma non è che ci sia stato molto altro, però qualcosina si sta
aprendo. Adesso per esempio vado a San Francisco con Enrico
Rava, Roberto Gatto e Stefano
Bollani, però son tutte cose abbastanza sporadiche, ecco.
AA: ed invece la situazione presente negli USA, o anche in Francia, per
uno che voglia seguire questo percorso artistico, basato esclusivamente
sull’improvvisazione?
AT: beh per Francia intendiamo Parigi, eh! Non
è che nel resto della Francia... però direi che la situazione è un po’
meglio che non qua. Intanto è un po’ più riconosciuta; qui già se dici che
fai il musicista non è un mestiere, se poi dici che fai jazz sembra che ti vai
solo a divertire. In Francia sei un po’ più riconosciuto, sono riconosciuti i
diritti d’autore sull’improvvisazione e sono stati fatti passi che qui credo
ci vorrà ancora molto tempo.
AA: eh certo... ma visto che questo rimanda anche all’argomento
dell’educazione musicale, e visto che spesso si vedono in giro annunci di
seminari con musicisti famosi, non pensi ci sia come un’eccessiva tendenza da
parte dei giovani musicisti a diventare dei “mostri nella propria camera da
letto” e poi magari non sono capaci di suonare in gruppo? Cioè
non pensi ci sia come un’enfasi eccessiva sullo strumento e poi fuori non sei
capace di suonare con gli altri?
AT: eh... è esattamente il contrario rispetto
a quando ho cominciato a suonare io. Quando ho cominciato a suonare io non
c’erano mezzi, però c’era modo di suonare, anche se suonavi musica da ballo
era tutto un altro modo di stare sullo strumento, imparavi un sacco di cose.
Adesso manca proprio questo. Manca la pratica dal vivo ed invece ci sono mezzi a
bizzeffe, perché tra internet, seminari, di qua, di là... però, insomma,
questa situazione lascia un po’ il tempo che trova. Cioè ti prepara
tecnicamente (e anche lì però ci sarebbe da parlarne...) e però non ti
prepara assolutamente ad suonare con gli altri, ad avere un’autonomia ritmica
ed una conoscenza più pratica, ecco.
AA: tu insegni ancora?
AT: io in questo momento insegno in due scuole,
a Rovereto [al C.D.M.] e qui a Bologna
[al Container], più qualche lezione privata.
AA: e stressi molto su questa componente...
AT: ma si, io insisto molto sul fatto che
bisogna imparare fare delle melodie semplici, sullo strumento, prima di fare
cose che tecnicamente non portano a niente; secondo me è più difficile fare
una melodia che abbia un senso, che non fare una scala velocissima che non si sa
dove metterla.
AA: infatti ho notato che nei tuoi assolo, la caratteristica è che parti
con una certa tranquillità e poi entra la tua componente melodica, tant’è
vero che ti canti quello che stai suonando; cioè parti tranquillo e poi ti
lasci andare.
AT: esatto, e anche li dipende molto, siccome
sono situazioni psicologiche diverse, dipende da con chi stai suonando, da come
stai tu, da come hai attraversato la giornata, per cui anche l’improvvisazione
subisce delle modifiche, a seconda del tuo stato d’animo; certo è che
comunque le componenti che uno ha, quelle le mantiene, eh! Per cui la mia
componente è la melodia e quello è, insomma. Su questo io insisto molto.
AA: anche se, come spesso dicono i miei compagni di gruppo (con cui
faccio, per esempio, anche pezzi di Conte), quando devi fare, che so, una
beguine o un mambo, in cui devi fare proprio due note solamente, tu non ti
schiodi da quelle e rimani incrollabile; per cui c’è anche la componente
prettamente ritmica, in te.
AT: assolutamente, ma per questo ti dicevo che
fare il session man mi è servito molto, è una disciplina importante; ogni
musica ha le sue regole, ha il suo modo di essere condotta e questo va
rispettato, specialmente quando lavori per terzi. C’è una disciplina ed un
gusto anche in questo, c’è un gusto nella semplicità, come c’è un gusto
nel suonare musica cubana, col basso spostato che è ripetitivo e che però ha
una circolarità che va presa, che va acquisita, non è così semplice, sono
spostamenti ritmici infinitesimali che però danno l’elasticità, la rotondità
del ritmo.
AA: e ovviamente, visto che come dicevi prima, negli anni 70 non c’era
un’educazione musicale affermate, sono robe acquisite “on the road”
diciamo.
AT: si, assolutamente, ma sai la balera mi ha
insegnato molte cose... anche come accompagnare Paolo Conte! E peccato che non
ci siano più! Perché adesso la balera vuol dire liscio...
AA: e visto che hai citato il rovescio della medaglia degli anni settanta,
(cioè che non c’erano scuole), hai detto però che c’era un coraggio, dal
punto di vista musicale e sperimentale, molto più presente.
AT: assolutamente, anche perché c’era modo
di suonare, il circuito politico dava modo di suonare veramente tanto, magari
guadagnare poco però stare su un palco davanti a della gente e sperimentare dal
vivo quello che hai sperimentato in cantina.
AA: e ora come la vedi, la situazione?
AT: mah... questa cosa non c’è più, è un
po’ come la vita, come la politica, come i valori... tante cose non ci sono più,
ecco. è tutto finalizzato a
funzionare a livello finanziario, tutto deve rendere subito, per cui anche la
fruizione da parte dei giovani è quella che è, insomma... i giovani non
vogliono sentire cose difficili, vogliono sentire cose che martellano... non sto
parlando di tutti, per carità, è un discorso un po’ di massa; però direi
che in linea generale c’è questo, la musica è diventata un po’ un
sottofondo o un’occasione per sballarsi il cervello e basta, con volumi
pazzeschi. Oppure un’occasione per far si che al ristorante la gente possa
parlare, perché se gli togli la musica non parlano più, che se ci pensi è una
cosa molto strana, è un condizionamento incredibile.
AA: dato che ho visto che sei stato in America, a New York, anche per
studiare; vedendo una situazione come quella, sia musicale che di ambiente e
contesto dove si inserisce la musica, pensi che in Europa siamo tanto indietro,
rispetto a loro?
AT: nooo, non c’è più questo divario,
ormai sono decenni che gli americani vengono qui, che gli italiani e gli europei
vanno là, ormai questo scambio è avvenuto; direi che in Italia, rispetto
all’Europa ci sono musicisti bravissimi, veramente... e questo non lo dico io,
lo dicono gli americani!
AA: ciononostante molti grossi nomi del pop italiano continuano a
chiamare musicisti americani a suonare sui loro dischi.
AT: e vabbè, questa è una malattia,
l’esterofilia è una malattia che abbiamo da quando abbiamo cominciato ad
essere invasi... ormai è qualche centinaio di anni.
AA: passando al lato più tecnico, ho visto alcune tue foto in cui suoni
un basso elettrico di marca imprecisata, dato che la foto non è abbastanza
dettagliata, a sette corde.
AT: è un Warwick, si, è un basso che mi ha
fatto la Warwick, o più che altro mi ha adattato, perché è uno streamer
adattato a sette corde, con un ponte particolare, i pickup un po’ più larghi...
AA: e con che accordatura?
AT: è l’accordatura del sei corde con una
corda aggiunta più acuta, che è un Fa, quindi sempre per quarte.
AA: quindi lo utilizzi per la componente melodica o più per la
componente di accordi d’accompagnamento?
AT: mah, ha più funzioni, è uno strumento
che è praticamente un pianoforte, per cui posso usarlo come basso, come
strumento armonico... l’ho fatto fare per quello, insomma, mi interessava
sviluppare alcune cose armonicamente.
AA: e come mai non hai considerato, faccio per dire, lo stick?
AT: perché la tecnica dello stick è una
tecnica più pianistica che chitarristica, perché coinvolge le due mani in modo
diverso, cioè richiede un’indipendenza, capisci? E per uno come me che ha
suonato uno strumento in cui la mano destra risponde a quello che fa la sinistra
e viceversa, è un po’ difficile, ci vuole un sacco di tempo. Ho avuto lo
stick, ho cominciato a studiare cose di Bach, però mi ci sarebbe voluto
talmente tanto tempo e tanta applicazione che praticamente dovevo chiudermi in
casa, e non era il caso...
AA: e visto che hai citato i musicisti classici, i tuoi studi di
conservatorio quanto hanno influito?
AT: su quello che faccio ora? Non so valutarlo
esattamente perché è una cosa che è avvenuta nel tempo, però sicuramente
alcune cose mi sono rimaste, un certo tipo di impostazione per le diteggiature
sul contrabbasso... nient’altro, credo... la lettura, ecco.
AA: quindi non un’organizzazione mentale, dal punto di vista
dell’armonia, eccetera...?
AT: no, perché purtroppo sono stato un po’
anomalo da questo punto di vista, perché facevo il conservatorio e già suonavo
nelle balere, per cui ho sempre vissuto due mondi in modo parallelo; tra
l’altro in quegli anni il conservatorio di Ferrara, che era poi il liceo
musicale, non si ascoltava musica classica, non c’era un’educazione per
niente, guarda... era terribile, non eravamo seguiti per niente, ci riprendevano
solamente perché avevamo i capelli lunghi e queste cose qui, cose che adesso
per fortuna sono cambiate.
Per cui non l’ho vissuta benissimo, direi che alla musica classica mi ci sono
avvicinato più dopo, dopo i trent’anni, per curiosità mia, per necessità
mia, insomma, per cui da questo punto di vista non mi è servito, anzi, credo di
essermi salvato da una tragedia melodico ritmica.
AA: perché altrimenti lo studio della musica classica...?
AT: com’è condotto, per me, è allucinante,
cioè non apre niente...
AA: è una cosa che mi hanno detto già in parecchi, eh! AT: i conservatori sono chiusi, sono con i paraocchi, quando si decideranno a capire che la musica è musica... cioè se tu senti, c’è gente che studia dieci anni il pianoforte e se gli chiedi che accordo stanno facendo non te lo sanno dire, perché lo stanno solamente leggendo! Allora, voglio dire, questo è terribile; non è che uno deve fare solo improvvisazione, cioè la musica classica può essere al servizio del jazz, ma anche il contrario, attenzione. Cioè il jazz da’ un’elasticità ritmica, da’ una padronanza che potrebbe andare molto d’accordo e migliorare sicuramente il livello tecnico ed espressivo della musica classica; come sta succedendo un po’ in America...
AA: come nel caso di Keith Jarrett...
AT: come Jarrett, ma per esempio c’è una
cosa molto evidente, se tu senti i Kronos Quartet, che sono stati uno dei primi
quartetti d’archi ad eseguire musiche di Monk o robe del genere, se tu senti
come dividono le cose di Monk fanno un po’ ridere... sono quadrati, e proprio
manca quell’elasticità che deve esserci, capisci? Invece ci sono quartetti
americani di giovani che ormai non hanno più questo problema. Cioè lo hanno
superato e le cose si stanno unendo.
AA: visto che la situazione dei conservatori è quella che sappiamo, ci
sono però parecchie scuole di musica moderna, in giro. Tralasciando il discorso
sulla tecnica che avevamo citato prima, che rischia di produrre solo fenomeni da
circo, pensi ci sia una considerazione a tutto tondo della musica o anche lì
sfornano cantautori e basta?
AT: no, no, ci sono delle scuole che si stanno
specializzando, ci sono scuole più o meno serie, eh... diciamo che dietro
questa facciata si sono nascoste, in questi anni suole poco serie, ecco...
adesso sta cambiando un po’. Però nelle scuole private dipende molto dagli
insegnanti, perché dove insegno io ho piena libertà, la scuola è solamente un
luogo che mi permette di avere una stanza e degli strumenti per trasmettere
qualcosa.
AA: e non sarebbe meglio se ci fosse un direttore artistico che decidesse
chi far insegnare? O meglio, che decidesse che impronta dare a quella scuola e
sulla base di quello decidere chi chiamare?
AT: si ma chi? Chi ha una preparazione tale
per fare questo mestiere, in Italia? Perché è difficile dire questo, sai, è
molto difficile.
AA: non è per fare pubblicità ma ho visto che dal vivo, col
contrabbasso, utilizzi un amplificatore Acoustic Image, giusto?
AT: utilizzo l’Acoustic Image ed utilizzo un
AER tedesco, che adesso è in fase di aggiustamento, e quello me l’hanno dato
in sponsor, ammesso che me lo ridiano, perché non si sono fatti più sentire...
mentre l’Acoustic Image è mio e mi piace molto.
AA: quindi non è una scelta dettata solo dalle dimensioni, perché ho
visto che è molto piccolo...
AT: no, no, io non mi sono mai fatto questo
problema perché davanti al suono non ci sono dimensioni che tengano. Vabè è
chiaro che si cerca il compromesso, però per esempio il Gallien Krueger l’ho
usato per un anno e poi non l’ho più usato perché non rispondeva alle mie
esigenze. Questo invece
è fatto in modo da avere una potenza abbastanza buona e una buona diffusione,
avendo il woofer che spara per terra... insomma mi piace.
AA: ah c’è il woofer che spara per terra, ecco perché sentivo il
basso dappertutto! Vabè... e, visto che lo chiedo
ormai a tutti... consigli per un giovane che si avvicina allo strumento?
AT: mah... che dire...
AA: visto che rimorchiare le ragazze col basso è un po’ difficile...
AT: heh heh... non saprei, dipende molto
dall’individuo, perché io insegno molto ai giovani e vedo che il mio modo di
insegnare cambia a seconda di chi ho davanti. I giovani hanno, come sempre, come
in tutte le generazioni, e forse adesso di più, hanno problemi di identità,
per cui il consiglio che posso dare io è di studiare bene lo strumento,
approfondirlo bene e non essere presuntuosi. Cioè non credere di sapere già le
cose, perché poi alla fine non si sa niente, e questo mi succede ogni giorno,
quando insegno. Se chiedo le cose più semplici, tipo scale maggiori, tonalità...
mi dicono “si, si, so tutto” poi gli dico, vabè, fammi una scala maggiore
su due ottave e non me ne fanno neanche mezza. Allora, voglio dire, prima le
cose di base e poi... pazienza, ecco, ci vuole pazienza ed obiettività. Fotografie di Roberto Abbate |
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