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Paolo Costa in Italian

 

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Se siete in Italia ed accendete la radio per ascoltare un po’ di musica nostrana, avrete delle ottime probabilità di incappare nella pulsante ritmica di Paolo Costa, uno dei bassisti più versatili nel nostro panorama musicale. Dal pop alla canzone d’autore, dal folk-rock all’hip-hop, Paolo è sempre presente e sempre riconoscibile. Diamo un’occhiata “dal di dentro” al mondo dei session men italiani. 

AA: ho visto, dalla discografia presente sul sito, che sei uno dei turnisti più richiesti in Italia; di solito nei lavori in studio sei più richiesto per l’esecuzione di parti già scritte o ti viene richiesto un contributo personale, del tipo: “questo è il groove, vedi cosa fare”? 

PC: mah, un po’ tutt’e due, nella musica ho visto che non c’è una regola ben fissa, perché ovviamente cambi produttore, cambi cantante e cambia anche la metodologia di lavoro. Quindi delle volte arrivo e c’è una parte scritta che va esattamente rispettata e allora devo agire a livello di suono o di portamento eventuale,  mentre delle altre volte c’è proprio un canovaccio di base, di partenza, e poi a seconda di come si sviluppa insieme alla batteria tutto il discorso il basso si adatta e ben vengano le idee del bassista; quindi si gioca un po’ in entrambe le situazioni. Io non sono un gran lettore a prima vista anche perché raramente mi viene data una parte da seguire alla lettera, mi succede tipo una volta su cinquanta. 

AA: al limite ti vengono dati dei pattern ritmici. 

PC: mah di solito sono o sigle e una divisione più o meno ritmica, raramente trovo ogni nota scritta. C’è anche il caso dell’arrangiamento, che è tipo un incastro, uno strumento sull’altro per cui veramente una nota di basso fa equilibrare gli altri strumenti che ci sono, allora in quel caso ci vuole la parte scritta, però normalmente, detta tra noi, dato che non ci sono ‘ste grandi idee di arrangiatori, in Italia… 

AA: lo metto, questo, o non lo metto? 

PC: si, mettilo pure, nel senso che non c’è una gran creatività in generale, poi nello specifico ci sono quelli molto bravi, però il basso e la batteria, soprattutto la ritmica, in Italia non è considerata come in America dove ha un’importanza e viene rispettata per quest’importanza che può avere a livello di nascita di un brano. In Italia, che è più che altro, come si dice, il paese della melodia, la ritmica è sempre un po’ sacrificata nell’economia di tutti gli strumenti di un brano, per cui è solo da pochi anni che magari senti delle cose un po’ più interessanti ritmicamente; ma a parte “cuore matto”, di Little Tony, dell’epoca, normalmente la divisione ritmica “boom, chak boom-boom chak” è quella che va per la maggiore. Se invece vai in America o in altri paesi dove la cultura più afro, più funk, più blues, ha avuto più modo di insinuarsi, il discorso basso – batteria cambia completamente. Il discorso basso – batteria va valutato anche a seconda della regione in cui vivi, non è un discorso mondiale, secondo me. 

AA: le volte che ti danno una parte scritta, magari non da seguire al 100%, ma comunque abbastanza fedelmente, riesci comunque a piazzarci qualcosa di tuo in termini di suono? 

PC: secondo me si; il portamento si sente, nel bene e nel male, però di solito nel suono e nel portamento riesci a dare qualcosa di tuo, a seconda anche di come vivi la parte. C’è anche da dire che bisogna vedere con che intento ti chiamano! Nel senso che c’è chi ti chiama per il tuo valore o perché ti conosce e sa certe cose su di te e ti chiama per un motivo logico musicale, ed invece c’è chi ti chiama solo perché gli hanno detto “chiama quello lì perché non avrai problemi” e magari non sa chi sei veramente. Non sa neanche bene cosa chiederti e non sa se lasciarti fare oppure no. Magari sa che sei affidabile, sa che vai a tempo e per lui basta così; c’è una parte da fare e tu devi solo farla a tempo. Anche qui l’Italia è un po’… mah… io parlo dell’Italia e dell’estero più che altro perché ho notato che il musicista cambia valore a seconda del paese in cui va. 

AA: nettamente… 

PC: Per quello dico “in Italia o altrove”, non perché sono esterofilo all’eccesso ma perché ho visto che sono due discorsi differenti. Tipo, se sei in Italia è più difficile fare questo lavoro perché quando ti chiamano non sanno bene il genere effettivo, che poi in realtà non c’è. In Italia c’è la musica italiana in cui un pezzo rispecchia la musica inglese, un altro la musica americana, però è tutto un minestrone fra estero e Italia. Se vai all’estero, non so, in America, c’è il bassista country, come l’ex bassista dei Toto, David Hungate, che adesso è specialista, a Nashville, di musica country. Lui è il numero uno dei bassisti country, ma fa paura, è capace di suonare tutto; però chiami lui a fare country e non chiami Nathan East, anche se in realtà è un altro numero uno. Chiami lui perché è il più bravo a fare quella musica lì. Così come non chiami Victor Wooten a fare note lunghe ma chiami Tony Levin, oppure chiami Pino Palladino a fare due note di fretless e non chiami Mark King, dato che lui è più bravo nello slap. Questa è la divisione che fanno all’estero, in Italia invece ti chiamano perché gira voce che sei bravo o non perdi tempo, sei veloce e risolvi i problemi. Queste sono le categorie di valutazione alle quali sei sottoposto quindi cambia un po’ l’atteggiamento. Devi essere pronto, e parlo del lavoro italico, a suonare un po’ tutti i generi; magari c’è il pezzo un po’ swing, magari c’è il pezzo un po’ funk o blues, magari c’è il pezzo di musica leggera e così via. In realtà è difficile specializzarsi su una cosa e perciò non stai a casa a fare una settimana di slap se studi e abiti in Italia, perché, a meno che tu non abbia un gruppo tuo dove puoi decidere la dimensione della sonorità e lo stile, se devi farlo per lavoro e per accontentare le esigenze degli arrangiatori – e cito lo slap per fare un esempio - il fatto di studiare una cosa specifica ti servirà a ben poco perché magari la userai una volta ogni sei anni. Invece dovrebbe essere diverso, cioè anche qui bisognerebbe avere più una visione delle caratteristiche personali e chiamare un musicista non tanto per lo strumento che suona ma più per la particolarità del suo modo di suonare proprio quello strumento. 

AA: certo; e sempre parlando di suono, ho visto che sul tuo sito, sui vari pulsanti che ti permettono di accedere alle varie sezioni hai messo degli effetti a pedale un po’ retrò; rispecchiano quello che hai tu o li hai messi solo perché erano belli? 

PC: quelli sono i miei pedali, alcuni tra i miei pedali; ho scoperto, grazie ad un incontro fortuito con David Rhodes, il chitarrista di Peter Gabriel, che è venuto in Italia a fare un tour con Franco Battiato nel ’97 mi pare, che lui è arrivato con una chitarra molto rudimentale, una vecchia Fender col selettore dei pickup scotchato da una parte per non rischiare di andare sull’altro pickup, e aveva dei suoni pazzeschi, veramente innovativi,creativi, era veramente un sostenitore di quelle situazioni, a lui bastavano due note per creare un mondo pazzesco, e lui usava più che altro pedalini analogici “antichi”, e tanti! 

AA: tipo quello che fa, nel basso, anche se è più moderno, Doug Wimbish, che ha una catena di segnale da paura. 

PC: Esatto, piuttosto che entrare in un multiefetto digitale che magari ha anche venti effetti e però la sonorità è comunque differente. Nel senso che il digitale, specie sul basso, non so se è una cosa psicologica, ma sembra quasi che appiattisca il suono, lo snatura un attimo, lo raffredda. Mentre se passi in un phaser a pedale analogico ti da’ ben altri effetti. Io ho cominciato ad usare i pedali soprattutto dal vivo, poi in studio li uso molto meno, anzi quasi mai. 

AA: vai in diretta. 

PC: o diretta o preamplificatore, con un compressore; di solito uso un dbx o magari lo salto e vado direttamente,  se c’è un compressore molto bello in studio. In quel caso salto il mio e uso quello lì.

Il preamplificatore, invece, lo uso per fare delle micro-correzioni di timbrica, anche se vado sempre sul delicato, non faccio mai cose estreme; se devo cambiare veramente il suono preferisco cambiare il basso. 

AA: E hai un arsenale diversissimo o hai strumenti molto simili tra loro? 

PC: no, ho un arsenale abbastanza vario, ho i miei capisaldi che sono lo Yamaha Attitude cinque corde modificato, che va bene quasi su tutto ed in studio mi ha sempre dato pochissimi problemi di adattamento su qualsiasi cosa, poi ho un fretless Yamaha BB5000 che uso quando necessito del fretless. Sennò ho anche altri bassi come il Music Man Sting Ray quattro corde fretless, che ovviamente ha un suono completamente differente. Poi siccome cambia molto il suono a seconda che il manico sia in acero o in palissandro ho anche un Sadowsky cinque corde o un Frudua a cinque corde entrambi col manico in acero, e tutti e due hanno caratteristiche differenti che dirle qua adesso… non so, parlare del suono è sempre strano perché il suono va sentito con l’orecchio. 

AA: certo, ma piuttosto che del suono parliamo dell’estensione dello strumento perché ho notato che rispetto a qualche anno fa, quando pareva che se non avevi il sei corde non eri nessuno, adesso si stanno un po’ tutti aggiustando sul cinque, con poche eccezioni. 

PC: si, io non sono mai stato un seicordista e non ne ho mai avuto uno in vita mia, pur avendo magari diciassette bassi a casa; non mi è mai venuta la curiosità perché non amo quel tipo di suono della corda alta. Sento che comincia ad uscire dal range del basso e mi viene voglia di chitarra, non di basso. Io ho scelto il basso e mi piace il basso proprio per le frequenze basse perciò se devo fare una scelta e poi suonarlo sulle alte non rientra nel mio gusto, però è una cosa del tutto personale. Poi secondo me snatura un po’ lo strumento avere un manico così largo, influenza un po’ troppo la tecnica. 

AA: quindi i vari sette corde che stanno venendo fuori adesso sono proprio esagerati? 

PC: non dico che non vadano bene e rispetto chi sceglie di usarli; io no, e poi non li chiamerei bassi ma piuttosto “arpa baritona”. Per me il basso è il quattro corde, mentre il cinque è per così dire il “Basso 1.1”, versione terzo millennio. A forza di scendere e soprattutto a forza di far fare la pre-produzione ai tastieristi che hanno una tastiera orizzontale, non c’è il limite di arrivare fino al Mi, quando suonano il basso sulla tastiera! Vedono che fino al Re è bello, fino al Do è bello e delle volte ho trovato anche dei Si bemolle o dei La bassi, nei bassi synth con cui fanno i demo. Allora comincia ad essere difficile abituarsi a non avere più quel Re grave o Do grave, perché comunque danno quell’appoggio emotivo che magari non può dare la stessa nota all’ottava alta.

Rientrando in quel tipo di ottica è anche giusto che esista il cinque corde, infatti li uso entrambi. 

AA: ed eventualmente bassi acustici e contrabbassi sono strumenti presenti nella tua paletta? 

PC: si io ho molte cose acustiche, il problema è che lavorando sempre per conto terzi… io ho anche la mia situazione, la Biba Band, che è una situazione personale e me la gestisco io, difatti uso o il quattro corde – dato che c’è anche Faso che hai il sei corde e per evitare di scontrarci nelle frequenze della quinta corda io uso un basso che non c’è l’ha proprio – oppure un contrabbasso elettrico, lo Steinberger a cinque corde che uso spesso, più che altro per la sonorità. In realtà non sono nato come contrabbassista però quello strumento permette ad un bassista di avere un approccio ed un suono, senza spaccarsi le dita per la famosa “cavata” del contrabbasso; oppure, come dicevo prima, nei lavori per conto terzi devi essere sempre pronto a fare magari delle situazioni “unplugged” o strane, quindi ho un acustico a quattro corde ed un paio di acustici a cinque corde. L’anno scorso ho fatto un tour con Claudio Baglioni, che si chiamava Tour Acustico, e lì non usavo il basso elettrico coi tasti, usavo un Epiphone cinque corde acustico e come elettrico usavo solo il fretless e il contrabbasso Steinberger. Mi piace usare quel tipo di strumento, ovviamente devi usarlo in contesti che ti permettono di uscire, come sonorità, perché se usi un basso acustico con una batteria  col doppio pedale diventa un po’ un casino. Il basso acustico non ha la cattiveria e la personalità o più che altro la potenza sonora per poter uscire da situazioni piene di altre frequenze. 

AA: parlando di “cattiveria”, ascoltando dei pezzi in cui hai suonato, tu sei abbastanza famoso per la spinta, specie nel funky, per il tuo “tiro” molto presente e molto in avanti; hai una tecnica particolare, per essere sempre definitissimo o è solo pulizia di suono? 

PC: non lo so, io ho sempre studiato in prospettiva di quello che mi piace, allora quando ascolto un bassista che mi convince… a me piace il basso perché è uno strumento che accompagna e nell’accompagnamento ci sono quelli che si capiscono e quelli che non si capiscono, quindi più che al funambolismo ho sempre seguito i bassisti che accompagnano, facendo caso al modo e ai piccoli trucchi che usano quelli che fanno poche cose semplici ma che sostengono una situazione armonica e melodica. 

AA: uno per tutti? 

PC: mah, quelli che ho nominato prima, i bassisti che lavorano nel pop e sono bravi sono Tony Levin e Nathan East, Pino Palladino è eccezionale, lo stesso Anthony Jackson, pur essendo un funambolo, quando vuole, quando accompagna semplicemente è veramente lodevole, è uno che sa anche accompagnare mettendo tre note. Nei dischi vecchi di Chaka Khan ogni tanto fa dei groove con Steve Ferrone che con veramente quattro robe hanno un tiro micidiale. Studiando queste cose quì ho notato che mentre nel funambolismo è importante magari il tipo di scala o eccedere e sorprendere in quel senso, nell’accompagnare vale di più una pausa piuttosto che una nota, quindi delle volte la spinta è dovuta più dal fatto che fai una nota, dal silenzio, e non da una scala con ottanta note; allora inserendo delle pausette, anche piccole, qua e la, ho notato che nell’accompagnamento si crea più groove. Delle volte è basilare la rinuncia. 

AA: Oppure (per esempio, mi sono scaricato dal tuo sito la partitura di “extraterrestre”), è meglio un ostinato piuttosto che una situazione in cui non sai dove va a parare il basso nella battuta successiva perché fa troppe variazioni. 

PC: si, poi dipende perché nella musica vale tutto e non vale un cazzo, nel senso che non essendoci regole va anche a seconda di quello che stai facendo. Extraterrestre è un esempio un po’ a parte perché in realtà è un pedale, nel senso che la situazione è un mono-accordo, e quindi, soprattutto per il basso, meno accordi ci sono più riesci a fare groove. In quel caso, in “extratrerrestre”, c’è un giro ostinato che non è su una nota sola ma su poche note, che risulta essere praticamente un mono-accordo, e lì è un po’ più facile fare quel tipo di cose. Se tu avessi avuto lo stesso pezzo con diciotto cambi di accordo di sicuro non sarebbe stato possibile avere quel tipo di “cattiveria” che è dovuta proprio alla ripetitività della parte. Il segreto di “extraterrestre” sono le ghost notes, tutte quelle note stoppate, che danno la rincorsa alla nota effettivamente suonata. La ghost è un’altra componente per dare groove; se tu fai una nota in battere o fai la stessa nota in battere con una ghost prima, con la ghost sembra più convincente. 

AA: Guardando nei tuoi link ho visto che ce n’è uno ai Beatles. 

PC: esatto, nell’infanzia ho avuto periodi in cui ero veramente beat-omane, prima ancora di suonare. Poi mi sono accorto che suonando il basso Paul McCartney (pur non essendo un super-tecnico), essendo però un grandissimo compositore ed il bassista di se stesso, non ha mai fatto una linea di basso sbagliata per la melodia che stava facendo. In quel senso è stata una grandissima scuola, perché tra l’altro era anche uno a cui piaceva “canticchiare” col basso, ogni tanto, però canticchiava anche rispetto a quello che cantava con la voce, quindi quella è veramente la scuola su come non rompersi il cazzo o fare delle linee interessanti rispetto ad una melodia interessante. 

AA: poi lui è anche riconoscibile sia per le cosiddette “canzoni dentro la canzone” - basti pensare a “with a little help from my friends” o “penny lane”, in cui c’è la linea di basso che sta in piedi da sola - sia per i cosiddetti “hook,” come li chiamano in America, cioè i riff di basso che rendono immediatamente riconoscibile il pezzo, tipo “come together”. A te è mai capitato di beccare un pezzo in cui hai infilato un “hook” di basso, subito dopo il quale il telefono ha cominciato a squillare molto più spesso. 

PC: purtroppo adesso non mi viene in mente, però un pezzo che mi ha dato soddisfazione in quel senso è quello che hai detto tu prima, “extraterrestre”; il periodo in cui è uscito ricordo che più di una volta mi hanno fermato dicendo “ah ma l’hai fatto tu il basso di ‘extraterrestre’?”, e un po’ mi vergognavo perché non mi sentivo di aver fatto questa gran cosa, perché avevo più o meno ripreso la traccia originale del povero Stefano Cerri, che ricordo con amicizia, e l’avevo solamente fatta un po’ mia, l’avevo rivissuta; però l’idea base non è mia. Poi è vero che il risultato è molto diverso dall’originale, però è l’insieme di tante piccole cose. Quella è una parte che mi ha dato soddisfazione, ma su quell’ellepì lì, che è “la forza dell’amore” di Eugenio Finardi, in cui praticamente si corona l’entrata ufficiale di Gavin Harrison, batterista inglese che poi ha collaborato con Baglioni per anni,  c’è stata un’alchimia abbastanza magica, infatti lo consiglio a tutti, sia per il basso che per la batteria, perché ci sono molte idee e molto particolari, per essere in Italia. Soprattutto perché lui, il batterista, è inglese e poteva permettersi di non dare idee italiane. Soprattutto era fra le prime volte che veniva, non era la prima in assoluto perché aveva già collaborato con Alice, ma solo dal vivo, però era la prima volta che registrava in Italia, quindi aveva una gran voglia di mettersi in mostra ed abbiamo fatto cose molto interessanti. Non voglio peccare di “gasataggine” però è un disco che riascolto volentieri anche dopo dieci anni, dato che è del ’91. 

AA: si, a me capita di riascoltare mie incisioni dopo parecchio tempo, perché a breve distanza non ho più voglia nemmeno di riascoltare il pezzo. 

PC: ci sono poche cose in cui ho suonato che riascolto volentieri, le conto sulle dita di una mano. 

AA: per concludere, consigli e suggerimenti ai lettori? 

PC: un consiglio è badare anche alle pause, oltre alle note da fare, poi un altro consiglio è capire cos’è il sistema modale perché incontrando moltissimi bassisti ho notato che suonano un po’ a caso, cioè studiano delle cose perché gli dicono che vanno studiate, ed una di quelle è il sistema modale – i bassisti sapranno di cosa sto parlando – però poi in grande percentuale lo accantonano come fosse, non so, la Divina Commedia, che studi a scuola, e non lo usano più all’atto pratico, e poi suonano più ad orecchio o con una sola scala. In realtà quello che hai appena studiato, cioè il sistema modale, andrebbe applicato o bisognerebbe cercare di applicarlo. Questo è un consiglio che do perché è un problema molto diffuso. 

AA: per esempio sapere se in un accordo di minore settima va usata una scala dorica oppure eolica. 

PC: esatto, anche la differenza fra un secondo o un sesto grado; sono due scale minori però molti hanno studiato queste cose, sanno che si chiamano dorica, ionica, eccetera, però all’atto pratico gli dici “minore… ma che sesto grado stai facendo?” “Non lo so, perché?” E allora capisci che non hanno capito che tutte queste cose vanno messe assieme. 

AA: e franano sulle pentatoniche. 

PC: poi il consiglio più grosso è quello, di suonare il più possibile assieme, nel senso che è inutile che un batterista passi ore e ore in sala prove e poi si lamenti che magari non viene apprezzato quando suona in un gruppo, perché dipende  tutto da cosa devi fare e l’atteggiamento che devi avere, specialmente con uno strumento come la batteria che è la base di una situazione multiforme e non si riesce da soli a capire cosa si deve fare in realtà. Quindi un consiglio è, anche se magari non ci sono le situazioni lavorative vere e proprie o scopi precisi, ma anche per passatempo, che il bello di suonare assieme non deve essere tolto al piacere del musicista. Anche perché è una delle vie per migliorare, nel senso che quando tu suoni con uno un po’ più bravo, automaticamente diventi un po’ più bravo, anche se non lo vuoi. Questa è una tecnica che andrebbe sfruttata, per dirla anche cinicamente. 

AA: è vero, è il problema che ho avuto e sto avendo anche adesso nello studiare jazz, nel senso che chi è già bravino non ti vuole nemmeno considerare, se è la prima volta che ti inserisci. 

PC: si, ma si può fare anche a piccoli gradi, nel senso che io non devo andare per forza a suonare con Pat Metheny, posso suonare anche con l’allievo dell’allievo dell’allievo di Pat Metheny, che è sicuramente più bravo del figlio del mio panettiere, quindi facendo così, a scalini, anche se è solo un po’ più bravo di te, quel po’ fa si che alla fine ci si livelli, sempre se uno non suona con quell’atteggiamento alla “suono solo per me stesso”.

Un altro consiglio, l’ultimo, è quello, soprattutto per un tipo di musica un po’ più facile, tipo il pop, di non considerare sempre quello che si fa, nel senso di studiare il fill o la frasettina particolare, ma di considerare soprattutto la maniera di farlo. Delle volte conta più il modo con cui uno affronta la frase, anche se la nota non è così bella, piuttosto che una nota bellissima, sulla carta, ma eseguita in una maniera che non è sincera o spontanea. In realtà bisogna considerare il modo più che la cosa che si fa. Non vuol dire che una cosa esclude l’altra; è esattamente come il linguaggio, perché - ti faccio l’esempio dell’attore - se per esempio viene Gassman e ti dice qualsiasi cosa, ma la dice “alla Gassman” ti affascina anche se ti dice “mi si è rotta la borsa della spesa”, mentre se arriva, che ne so, Alvaro Vitali e ti dice una frase dalla Divina Commedia non ha il peso di Gassman che ti dice “mi si è rotta la borsa della spesa”. Questo è l’esempio che, trasposto sul basso, dovrebbe far capire che delle volte due note fatte in una certa maniera hanno più valore di una scala raffazzonata, fatta perché sentita da un altro disco però non bene eseguita perché non è farina del nostro sacco. 

 

Potete consultare la vasta discografia e la nutrita scheda tecnica del Nostro al sito

http://www.paolocosta.it

 

Un grazie a Franca Cristofoli per il suo prezioso aiuto nel rendere possibile questa intervista.

 

 

 

Alessandro Arcuri

 

 

 

                                  

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Last modified: June 16, 2009